di Geminello Alvi
Il New York Times si sorprende della nuova reputazione della Indonesia e la promuove, persino con qualche entusiasmo, a economia modello. Il che può spiegarsi certo anche con la congiuntura dell’esportazioni e degli investimenti che in Cina decelera, con la Russia che brucia e riconferma i suoi atavismi di inefficienza, o coi prezzi dei raccolti che già preoccupano l’India. Eppure l’intento di vedere entro breve elevato il rango della economia indonesiana a quello della Cina e dell’India trova una qualche evidenza nei fatti. Attrarrà più investimenti dall’estero quest’anno che nel 2008; e dunque inizia, malgrado la religione mussulmana, ad interessare i mercati internazionali. Confortati finora da una accelerazione del prodotto lordo nel secondo semestre; dalla borsa in crescita del 20% su gennaio; da una rupia che si è apprezzata del 5%, a livelli giapponesi. Certo non poco per una nazione con una legislazione confusa e un sistema di istruzione arcaico.
E però non solo lo stato non è conflagrato come pareva negli anni seguenti alla fine della dittatura di Suharto nel 1998. Né i separatisti né gli estremisti islamici hanno prevalso e l’elezioni presidenziali si sono svolte in forme che per i luoghi possono dirsi piuttosto civili e pacifiche, confermando l’anno scorso per un altro mandato presidente Susilo Bambang Yudhoyono. La qualcosa già un anno fa aveva aggiunto ulteriori ottimismi a quelli che potevano ricavarsi da un debito basso e da una buona crescita. E da allora peraltro i consumi dei 240 milioni di indonesiani sono migliorati, grazie non solo ai programmi di sussidi ai poveri. Il traffico ormai caotico delle auto per le strade di Jakarta, per quanto sgradevole, conferma infatti il primo consolidarsi di una classe media e dei suoi più tipici consumi.
Insomma l’economia resta povera con un 15% degli abitanti che guadagna meno di quel dollaro al giorno che là definisce il confine ufficiale della povertà. Ma in cinque anni il prodotto lordo dell’Indonesia dovrebbe varcare pur sempre una soglia importante nella gerarchia mondiale, e arrivare ad almeno 1 trilione di dollari. E intanto la produzione di scarpe, che conta già 640 mila occupati, seguita a crescere a scapito di quella del Vietnam e della Cina. A conforto di quanti vedono, forse con eccesso di zelo, questo Meridione dell’Oriente travolto dalla crescita.
Agosto 2010