Roma - I colossi americani della tecnologia sono le aziende i cui titoli hanno accusato le perdite più massicce in borsa in seguito all'elezione di Donald Trump. Il presidente eletto degli Stati Uniti ha infatti dichiarato guerra alla delocalizzazione e a rischiare di più sono soprattutto le compagnie, come Apple, che hanno all'estero la maggior parte delle fabbriche, dove a garantire gli elevati margini di guadagno e i bassi costi di produzione di cui gode l'azienda sono lavoratori con orari e salari che nessun operaio statunitense accetterebbe. Il gruppo di Cupertino assembla i suoi prodotti in Cina, mentre i componenti vengono fabbricati principalmente in Cina, Giappone e Taiwan, dove hanno sede, ad esempio, gli stabilimenti della Foxconn, l'azienda (che produce componentistica per quasi tutti i giganti americani dell'elettronica) salita agli onori delle cronache nel 2010 per una serie di suicidi tra i suoi dipendenti.
Gli strali di Trump contro Apple
Già durante le primarie repubblicane, promettendo di riportare in patria parte della produzione delle grandi aziende Usa, Trump aveva più volte citato in maniera esplicita Apple. "Riporterò indietro i posti di lavoro", aveva dichiarato 'The Donald' lo scorso marzo, "porterò Apple a costruire i suoi computer nel nostro territorio e non in Cina. Come ci aiuta se lo fanno in Cina?". Ciò spiega perchè l'amministratore delegato di Apple, Tim Cook, avesse sostenuto il candidato dei Democratici, Hillary Clinton, organizzando anche una raccolta di fondi per l'organizzazione che ne curava la campagna elettorale. Trump aveva inoltre invitato a un boicottaggio dei prodotti Apple lo scorso febbraio, quando la compagnia aveva rifiutato di concedere all'Fbi l'accesso all'iPhone di uno dei terroristi autori della strage di San Bernardino.
Quella telefonata tra Trump e Tim Cook
In un'intervista concessa al New York Times, Trump ha raccontato di aver ricevuto una telefonata da Cook, al quale avrebbe promesso sgravi fiscali tali da convincerlo a produrre sul suolo americano. "Gli ho detto: 'Tim, sai che una delle cose che per me costituirebbero un vero traguardo e quando porterò Apple a costruire un grande stabilimento negli Stati Uniti, o molti grandi stabilimenti negli Stati Uniti", spiegò il presidente eletto, "invece di andare in Cina, in Vietnam e nei posti dove andate, farete i vostri proprio qui". "Capisco", sarebbe stata la risposta del numero uno di Cupertino, che non ha ancora rilasciato commenti sulla sua conversazione con Trump.
In arrivo un grande taglio delle tasse
Trump ha proseguito la ricostruzione della telefonata spiegando di aver offerto a Cook ingenti agevolazioni fiscali per convincerlo a produrre in patria: "Vi daremo incentivi e credo che lo farete, faremo un taglio delle tasse molto grosso per le aziende e ne sarete felici". Altro caposaldo della ricetta del magnate è la lotta alla burocrazia. "Dobbiamo liberarci delle regolamentazioni, che stanno rendendo le cose impossibili", avrebbe detto ancora Trump a Cook, "che siate progressisti o conservatori, potrei mostrarvi regolamentazioni che chiunque concorderebbe nel trovare ridicole, deve esserci un 'liberi tutti'. Le aziende non riescono nemmeno a partire, non riescono a espandersi, stanno soffocando".
E i robot? Costruiremo anche quelli...
Già l'amministrazione Obama aveva dato nuovo impulso al 'made in Usa'. Secondo un'analisi dei dati della Fed di St. Louis, la produzione manifatturiera statunitense nel 2016 è salita ai massimi da dieci anni. Il punto dolente è che le nuove tecnologie consentono di produrre con minore manodopera. Durante l'intervista con il New York Times, è stato domandato a Trump se non fosse preoccupato che aziende come Apple avrebbero sì rimpatriato la produzione ma sostituendo gli operai con i robot. "Lo faranno e costruiremo anche i robot", aveva replicato l'immobiliarista newyorchese, "al momento non costruiamo robot, non costruiamo nulla. Ma lo faremo. La robotica sta diventando molto grande".
La carota degli sgravi e il bastone dei dazi
Trump in campagna elettorale ha promesso di abbassare dal 26% al 15% l'aliquota sugli utili delle grandi aziende e di consentire il rimpatrio dei capitali detenuti dalle multinazionali all'estero con un vero e proprio "maxi condono". Apple, se ne approfittasse, pagherebbe appena il 10% di tasse sui 216 miliardi di dollari depositati offshore. Cook ha dichiarato in passato che avrebbe riportato volentieri quelle somme in America se solo non fosse stato per le imposte "irragionevoli, retrograde e orrende". Per convincere Apple a produrre in Usa, Trump potrebbe inoltre rendere meno conveniente produrre in Cina. L'ipotesi di una guerra commerciale a colpi di dazi con Pechino avrebbe però pesanti conseguenze e Trump potrebbe rivelarsi nei fatti più moderato di quanto sia stato a parole anche in tema di protezionismo. E ci sono anche ineludibili ragioni strutturali per le quali un iPhone 'made in Usa' costerebbe almeno 40 dollari in più.
Ma il 'rimpatrio' ha ostacoli strutturali
La maggior parte degli analisti ritiene, però, che sarebbe impossibile per Apple iniziare a produrre iPhone in Usa di punto in bianco. In Cina l'azienda può infatti contare su una complessa e gigantesca catena di fornitori tutti orbitanti intorno al grande polo industriale di Shenzhen. Ci vorrebbero anni per ricostruire tale sistema negli Stati Uniti, anni dei quali i concorrenti asiatici di Apple, come Samsung e Huawei, approfitterebbero per strapparle quote di mercato. Il 21 dicembre 2015, in un'intervista alla Cbs, Cook ha inoltre spiegato, inoltre, che è difficile per Apple produrre in Usa anche per la scarsità di manodopera con le qualifiche necessarie. Non è un problema isolato. Come ha sottolineato più volte la Federal Reserve, molte aree dell'industria americana soffrono da anni di una carenza di offerta di lavoro. A latitare sono gli operai specializzati e alcuni profili professionali stanno rischiando letteralmente di scomparire. Gli obiettivi di Trump non possono quindi prescindere da una vasta campagna di formazione dei lavoratori. Al momento Apple produce in Usa solo un prodotto di nicchia come il MacPro.
Il ritorno del liberismo è una tendenza generale
Trump non è isolato nel ritenere che la risposta alla crisi della globalizzazione sia una 'deregulation' che spinga le multinazionali a tornare a produrre in patria. Può apparire ironico che "più mercato" sia la ricetta per superare la crisi del libero mercato ma è altrettanto paradossale che Paesi sulla carta "comunisti" come la Cina siano diventati poli manifatturieri competendo al ribasso sul costo del lavoro. Anche il premier britannico, Theresa May, intende sedurre i titani del 'Big Tech' con ingenti sgravi fiscali e la tendenza appare destinata a diventare generale tra i conservatori, come dimostra la scelta del thatcherista Francois Fillon come candidato dei "Republicaines" alla presidenza francese.
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