di Eugenio Buzzetti
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Pechino, 30 apr. - Oltre 75 miliardi di dollari investiti in cinquanta Paesi africani tra il 2000 e il 2011 in almeno 1700 progetti di sviluppo. Che l'impegno economico di Pechino sul contiene fosse forte e si fosse consolidato negli ultimi anni si sapeva. Più complicato, fino ad oggi, stabilirne con esattezza l'entità, anche perché le informazioni sugli aiuti all'estero fornite dal governo cinese sono spesso lacunose. Il database pubblicato oggi da alcuni ricercatori del Centro per lo Sviluppo Globale, una partnership tra diversi college e centri di ricerca americani, traccia gli investimenti del Drago in Africa nel decennio scorso, dal 2000 al 2011, al termine di un lavoro di ricerca e decrittazione dei dati durato 18 mesi. La somma totale degli investimenti - i 75 miliardi di dollari - è ancora inferiore a quella degli Stati Uniti nello stesso periodo, 90 miliardi di dollari, ma il trend degli investimenti è costante e l'importanza strategica del continente per la Cina non è calata in questi anni.
La sorpresa dei ricercatori è stata che l'equazione "investimenti in cambio di risorse" che vedrebbe la Cina sostituirsi alle potenze coloniali nel continente è in molti casi smentita. Accanto ai progetti di sfruttamento minerario (61) ed energetico (85) o di espansione dei collegamenti via terra per il trasporto di materie prime, ci sono anche centinaia di iniziative educative sanitarie e culturali realizzate nei vari Paesi con i capitali del Dragone. Tra questi, si possono ricordare: il finanziamento per un centro di prevenzione per la malaria in Liberia; la Scuola Nazionale di Arti Visive a Maputo, in Mozambico; la costruzione, non ancora ultimata, di un teatro dell'Opera con 1400 posti a sedere ad Algeri. Migliaia di insegnanti e medici cinesi sono stati inviati in Africa nel periodo coperto dalla ricerca. L'Africa è diventata uno dei principali laboratori dove la Cina mette all'opera il suo concetto di "soft power". Per poi, magari, esportare questo modello in Paesi con una legislazione più restrittiva sugli investimenti stranieri, come gli Stati Uniti e l'Unione Europea. "La versione dominante egli ultimi anni -spiega Vijaya Ramachandran, uno degli autori del rapporto- è sempre stata quella di un desiderio cinese insaziabile per le risorse, ma questo database rivela che ci sono molti più fattori in gioco".
In molti casi si tratta, secondo alcuni, di progetti di facciata per ottenere il sostegno dei governi e ammorbidire la loro posizione sui progetti che realmente contano per Pechino. I medici cinesi, con il tempo, si sarebbero trasformati in emissari delle case farmaceutiche, per esempio. Del concetto di soft power cinese parla diffusamente Davide Cucino nel suo libro "Tra poco la Cina" edito da Bollati Boringhieri, dove elenca anche le iniziative in questo senso del Dragone in Africa. L'internazionalizzazione dei media cinesi nel continente è sempre più visibile: la CCTV ha recentemente aperto un centro di produzione a Nairobi, e l'emittente televisiva di Stato cinese ha intenzione di aprire una dozzina di uffici in Africa. CCTV ha poi un accordo con l'operatore televisivo satellitare MIH. L'agenzia stampa Xinhua ha già venti uffici sul continente e rappresenta un'alternativa più economica dei giganti dell'informazione occidentale. Dal 2006, poi, la Cina ha stabilito un accordo con i Paesi africani che riconoscono Pechino anziché Taipei come capitale dell'unica Cina, per la cooperazione tra media cinesi e africani e migliorare l'immagine del Dragone, e tra i progetti compresi nel database di Pechino ci sono anche quelli di formazione di giornalisti in Angola e Zimbabwe.
Di certo, l'importanza dell'Africa è chiara anche per il nuovo presidente cinese. La Tanzania è stata la seconda tappa del viaggio inaugurale di Xi Jinping da capo di Stato, seguita dal Sudafrica, per il vertice con gli altri Paesi Brics, e infine il Congo, da cui l'anno scorso Pechino ha importato una quantità di greggio pari al 2% del fabbisogno nazionale. Proprio in Tanzania, la Cina aveva sviluppato uno dei suoi primi e più importanti progetti nel continente: la ferrovia che collega il Paese allo Zambia e al porto di Dar Es-Salaam, usato per il trasporto di materie prime. La Cina è il più importante partner commerciale del Paese con scambi bilaterali che nel 2012 hanno toccato quota 2,47 miliardi di dollari: il presidente cinese aveva definito la Tanzania "un buon amico" promettendo di continuare a favorire lo sviluppo economico del Paese in cambio del sostegno verso gli interessi nazionali reciproci.
Non sempre però le operazioni di soft power sfociano in una "win-win situation"(mantra caro a Pechino). Le resistenze alla visione di una Cina che entra in Africa senza l'arroganza dei Paesi occidentali si sono fatte sentire anche in occasione dell'ultimo viaggio di Xi Jinping nel continente: il Financial Times in quei giorni aveva ripreso l'opinione di Lamido Sanusi, governatore della Banca Centrale della Nigeria, per smentire proprio la tesi che la Cina non avesse interessi coloniali nel continente. Lo squilibrio della bilancia commerciale tra il Dragone e i Paesi che intrattengono relazioni con Pechino era tale per cui, affermava Sanusi, la politica cinese in Africa fosse diventata nel corso degli anni, "l'essenza stessa del colonialismo". Soft Power e Win-Win Situation sono termini che, secondo molti, hanno perso vigore negli anni e sono incapaci di spiegare un rapporto complesso che in tempi recenti è andato incontro ad alcuni seri problemi, con alcuni casi di rapimento di personale nelle aree più difficili: è stato il caso dei 29 cittadini cinesi rapiti dai ribelli sud-sudanesi che stavano lavorando alla costruzione di una strada nella regione del Kordofan; oppure dei venti cinesi rapiti subito dopo in Egitto (e rilasciati quasi subito). La questione della sicurezza si è fatta poi prioritaria con le rivolte nell'Africa mediterranea del 2011: allo scoppio della guerra in Libia, Pechino, in soli dieci giorni aveva evacuato dal Paese 35mila persone.
L'influenza cinese in Africa è però un fattore ormai consolidato. Non è solo la Cina negli ultimi anni ad avere aumentato i suoi interessi nel continente: anche Brasile, Venezuela e Iran sono attori importanti nel continente, secondo i dati dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). E sottraggono spazio ai Paesi dell'occidente, nonostante le critiche per la scarsa trasparenza dei loro investimenti e aiuti. Dei 53 Paesi che formano il continente solo quattro (Burkina Faso, Gambia, Swaziland e Sao Tome and Principe) riconoscono Taipei. Anche il Senegal, che nel 1996 aveva ritirato da Pechino la sua rappresentanza diplomatica è in seguito tornato sui suoi passi. Poco importa, allora, che dei progetti dichiarati dalla Cina, i ricercatori del Centro per lo Sviuppo Globale ne abbiano evidenziati solo circa un migliaio siano in fase di realizzazione o completati. Il legame tra Cina e Africa è sempre più forte, come testimoniano i dati del ministero del Commercio cinese che a fine 2011 davano circa duemila aziende che operavano stabilmente nel Dragone, con Pechino che dal 2000 ha contribuito ad aumentare la crescita nel continente di oltre il 20%. E almeno a parole, Pechino non delude mai i suoi alleati. "L'eredità occidentale in Africa -aveva dichiarato il mese scorso l'inviato speciale in Africa per la Cina Zhong Jianhua- è che il continente dovrebbe ringraziare l'occidente, e che l'Africa dovrebbe riconoscere di non essere alla sua altezza. Questo non è accettabile".
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