Pechino, 14 gen.- Nella partita sullo yuan il Dragone gioca d'anticipo: a pochi giorni dalla visita del presidente Hu Jintao a Washington, che inizierà mercoledì prossimo, il viceministro degli Esteri Cui Tiankai ha difeso la posizione cinese e ribadito la volontà di Pechino di evitare condizionamenti esterni. "Nell'esaminare la riforma del meccanismo del tasso di cambio dello yuan la Cina prende in considerazione i propri bisogni e i propri interessi e non risponde alle richieste di altre nazioni - ha dichiarato Cui nel corso di un forum presso il ministero degli Esteri - ,nel perseguire i propri obiettivi di apertura e sviluppo, la Cina può ovviamente apportare dei benefici al commercio e alle relazioni economiche con altri paesi, Stati Uniti inclusi".
La questione della rivalutazione dello yuan, com'è noto, agita da tempo le acque tra le due sponde del Pacifico: Washington accusa Pechino di mantenere artificialmente basso il valore della sua moneta per ottenere un vantaggio sleale negli scambi con l'estero. Per gli USA, la ragione dell'enorme surplus commerciale riportato dalla Cina nei confronti dell'America - che nel 2010 si è ulteriormente allargato del 26% - risiede in una valuta che viene stimata ad un valore di circa il 30% inferiore a quello reale: nel corso della campagna per le elezioni di medio termine del novembre scorso, politici di entrambi gli schieramenti hanno agitato lo spauracchio di una Cina che sottrae lavoro agli americani grazie alla competitività delle sue merci, acquistata proprio barando sul valore effettivo dello yuan-renminbi. Al Congresso, politici di entrambi gli schieramenti hanno approvato alcuni mesi fa una norma che, se controfirmata, potrebbe condurre all'applicazione di tariffe sulle merci cinesi, nonostante alcuni osservatori ritengano che la legge sia in conflitto con le regole del WTO.
Pechino respinge le accuse su tutti i fronti: dopo aver vincolato lo yuan al dollaro nel 2008, al sorgere della crisi, la Banca centrale di Pechino ha adottato un tasso di cambio più flessibile nel giugno dell'anno scorso; da allora la moneta cinese si è apprezzata sul biglietto verde di circa il 3.5%. Ma secondo la Cina le ragioni degli squilibri sono ben altre, come ad esempio i divieti all'export di prodotti hitech che l'America applica tuttora alle merci dirette oltre la Grande Muraglia. La linea ribadita da Cui Tiankai è quella ripetuta nei mesi scorsi dal premier Wen Jiabao: "Un apprezzamento improvviso dello yuan provocherebbe la chiusura di innumerevoli fabbriche cinesi e un aumento della disoccupazione. L'apprezzamento dello yuan è una questione interna".
Se è praticamente certo che Barack Obama, nell'incontro con Hu Jintao del 19 gennaio prossimo solleverà la questione, mercoledì scorso il segretario del Tesoro USA Timothy Geithner aveva dichiarato che Washington "è disposta a consentire alla Cina maggiore accesso al mercato americano e ai prodotti ad alto contenuto tecnologico, se Pechino mostrerà maggiore disponibilità sulla riforma del tasso di cambio". Ma anche se pochi giorni prima della visita di Hu Jintao la Banca centrale ha portato lo yuan ai livelli più alti degli ultimi mesi, e diversi adviser di People's Bank of China sostengono che nel 2011 la moneta cinese si apprezzerà tra il 5% e il 6%, le parole di Cui Tiankai sembrano ribadire la linea usuale: lo yuan è una questione interna. La manovra decisa dalla FED nel novembre scorso - un alleggerimento quantitativo da 600 miliardi di dollari per guadagnare competitività (leggi questo articolo)- nei prossimi mesi rischia di esportare inflazione in Cina e diminuirà il valore delle riserve cinesi denominate in valuta americana. "Cina e USA hanno investito molto nel successo reciproco" hanno detto recentemente Cui Tiankai e Timothy Geithner. Ma di certo, dalle parti di Pechino, l'ultima mossa della Federal Reserve non è stata molto apprezzata.
di Antonio Talia
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