Pechino, 27 apr. - Arrivano i primi effetti del duro faccia a faccia che negli ultimi mesi ha visto Google opporsi alla Cina: secondo uno studio pubblicato da Analysis International, società di ricerche con base a Pechino, nel primo trimestre 2010 la quota del mercato cinese detenuta dal colosso di Mountain View è scesa al 30.9% rispetto al 35.6% totalizzato nei tre mesi precedenti. Ad avvantaggiarsi del terreno perduto da Google è soprattutto il gigante Baidu, motore di ricerca da sempre in testa alle preferenze dei cinesi, che balza dal 58.4% dell'ultimo trimestre 2009 al 64% dei primi tre mesi del 2010; le previsioni di molti analisti, che ipotizzavano un incremento di altri motori di ricerca locali minori, non sembrano essersi concretizzate: nello stesso periodo Sohu.com e Soso hanno registrato entrambi un -0.3%, passando rispettivamente allo 0.7% e allo 0.4% del mercato totale. Il caso Google contro Cina era iniziato nel gennaio scorso, quando il motore di ricerca californiano aveva accusato Pechino di essere all'origine di una serie di sofisticati attacchi hacker che avevano sottratto know-how riservato ad una trentina di compagnie statunitensi e violato le caselle email di alcuni dissidenti politici. Da allora Google aveva manifestato la volontà di abbandonare la Cina e sbloccare i filtri imposti dal Dragone su tutti i motori di ricerca; una minaccia messa a segno alla fine di marzo, quando il portale Google.cn ha reindirizzato il traffico internet proveniente dalla Cina verso la versione di Hong Kong, Google.com.hk, sul quale la compagnia non deve autocensurare i contenuti sgraditi al governo di Pechino. La mossa, com'è noto, non si è tradotta in grossi cambiamenti per il navigatore cinese: sollevato il filtro autoimposto da Google, è infatti scattato subito quello che la Cina normalmente applica a tutti i siti stranieri, detto "Grande Muraglia di Fuoco", per cui pagine vietate come quelle dedicate al culto vietato Falun Gong, alla difesa del Dalai Lama o a una rivisitazione critica del massacro di Piazza Tiananmen continuano a essere irraggiungibili. Google ha promesso di mantenere nel Paese di Mezzo i propri centri di ricerca e sviluppo, ma il destino dei circa 600 dipendenti è ancora sconosciuto: Pechino, ad esempio, potrebbe reagire precludendo ai californiani gli investimenti in aree strategiche come quella della telefonia mobile. Con oltre 300 milioni di navigatori, quello cinese è il primo mercato internet al mondo: la mossa di Google, almeno secondo i ricercatori di Analysis International, sta facendo perdere alla società californiana anche le quote che si era faticosamente conquistata. Da quando il caso è scoppiato i media cinesi non perdono occasione per attaccare Google, sostenendo che la compagnia californiana obbedisca in realtà a un'agenda politica: "Google China non sta facendo business, ma sta portando avanti un tentativo di utilizzare internet come strumento di infiltrazione culturale e di valori - si legge in un duro editoriale dell'agenzia di Stato Xinhua pubblicato all'indomani del reindirizzamento verso Hong Kong - ed è inevitabile chiedersi se Google sia davvero una compagnia commerciale, e quali siano le vere intenzioni di chi la sostiene nell'ombra. Nessuno Stato sovrano potrebbe mai acconsentire a una diffusione tramite internet di contenuti che promuovono la sovversione, l'odio razziale, l'estremismo religioso, il terrorismo o che incitano alle cosiddette rivoluzioni colorate". Il governo di Pechino ha sempre invitato a "non politicizzare la questione", mantenendo un atteggiamento di netto rifiuto verso qualsiasi alleggerimento della censura.