Luca Vinciguerra
SHANGHAI. Dal nostro corrispondente
Sulla quinta colonna cinese di Rio Tinto cala implacabile la scure della giustizia cinese. Ieri il Tribunale di Shanghai ha condannato l'australiano Stern Hu, il direttore della filiale cinese del colosso minerario anglo-australiano, a dieci anni di carcere. Ai suoi tre collaboratori sono state inflitte pene comprese tra sette e 14 anni. L'accusa a carico dei quattro manager di Rio Tinto è di corruzione e violazione di segreti commerciali: in soldoni, mazzette e spionaggio industriale.
Ignorando le consuetudini della normativa cinese, che attribuisce un notevole peso alle ammissioni spontanee di colpevolezza, i giudici non hanno avuto pietà dei quattro imputati che la settimana scorsa, all'apertura del processo, avevano subito riconosciuto tutti gli addebiti. O, almeno, ne hanno avuto molto poca. Nonostante il "pentimento" pubblico in aula, Hu - il manager dal nome han, ma di cittadinanza australiana, che per anni ha guidato la filiale cinese di Rio Tinto - si è beccato dieci anni di reclusione, oltre all'equivalente di 150mila dollari di multa e alla confisca dei suoi beni in Cina.
A uno dei suoi sottoposti è andata perfino peggio. La legge cinese punisce la corruzione applicando un semplice criterio di progressività, che va da pochi anni di carcere sino alla pena di morte in funzione del valore della tangente percepita. Così Wang Yong, il manager più avido che si era messo in tasca ben 9 milioni di dollari, dovrà trascorrere 14 anni nelle patrie galere. Ai suoi due colleghi, Ge Minqiang e Liu Caikui, sono state comminate pene rispettivamente di otto e sette anni.
«Con il loro comportamento sleale, gli imputati hanno arrecato un grave danno all'industria siderurgica cinese», si legge nelle motivazioni della sentenza. Come? In due modi. Il primo è quello che ha portato all'accusa di corruzione. La Cina è il maggior consumatore mondiale di materiali ferrosi, il cui prezzo è determinato su base annuale dai tre giganti oligopolisti Rio Tinto, Bhp Billiton e Vale tramite una serie di consultazioni con i loro maggiori clienti globali. La scorsa primavera, mentre le trattative per la fissazione del prezzo 2009 dell'iron ore erano in una fase cruciale, i quattro manager di Rio Tinto accettarono le tangenti da produttori cinesi di acciaio in cambio di forniture sottocosto, alterando così le condizioni di mercato.
Il secondo è quello che ha portato all'accusa di violazione di segreti commerciali. Grazie ai rapporti privilegiati con personaggi autorevoli e influenti della siderurgia cinese, Hu e compagni riuscirono a carpire informazioni riservate sul mercato domestico dell'acciaio e sulle strategie messe a punto da Pechino per affrontare le trattative sul prezzo dei materiali ferrosi. Quest'operazione, secondo la Corte, mise i produttori cinesi di acciaio in una posizione di svantaggio rispetto alla concorrenza.
«Si tratta di sentenze molto severe. Tuttavia, la cosa non influenzerà le relazioni tra i due paesi», ha detto il ministro degli Esteri australiano, Stephen Smith, commentando a caldo il verdetto Rio Tinto. Nessun caso politico, quindi. E nessun caso aziendale. Il gruppo anglo-australiano, per il quale la siderurgia cinese è una gigantesca gallina dalle uova d'oro, non ha infatti proferito verbo sulla sorte dei suoi quattro dipendenti che, in segno d'infinita gratitudine, ieri ha licenziato.
Dopo otto mesi, dunque, il giallo Rio Tinto è finito. Ma c'è un risvolto della vicenda che la giustizia cinese non ha chiarito sino in fondo. O che forse, trattandosi di una faccenda domestica, si riserva di chiarire in un secondo tempo. Chi a Pechino pagò fisicamente quelle tangenti miliardarie ai quattro manager di Rio Tinto? E chi passò loro le informazioni riservate sull'industria nazionale dell'acciaio?
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30/03/2010

