Se passa l'obbligo del "Made in" non sono che contento: non ho paura, lo faccio da due anni e ho perso non poco. All'inizio i miei clienti quando leggevano l'etichetta "Made in China" pretendevano di pagare i capi un quarto del valore reale nonostante avessero standard di qualità italiani. Adesso va un po' meglio, si sono abituati, ma qualcosa ci perdo sempre»: senza tanti giri di parole Maurizio Zannier, 60 anni, titolare di Cotonella, azienda di abbigliamento intimo, arriva subito al punto.
La società, con sede in Vallecamonica, nel bresciano, è stata fondata 35 anni anni da Zannier e dalla moglie. Oggi è presente in tutti i canali commerciali e inonda il mercato con 18 milioni di capi, per lo più diretti a un consumatore di medio livello. La notorietà del marchio è legata alla sponsorizzazione, da 11 anni, di Miss Italia.
Quest'anno Cotonella fatturerà 35 milioni (+4%). La "povertà" del prodotto le impone un Mol risicato, il 7% dei ricavi, ma, grazie anche a costi di produzione ridotti, è un'azienda florida con un patrimonio netto triplo rispetto al debito bancario.
Perché il "Made in" anticipato?
Non potevamo rischiare che i nostri camion venissero fermati da qualche dogana europea prima di arrivare in Italia. Spero che con l'obbligo dell'etichetta d'origine si faccia chiarezza: oggi i capi delle griffe valgono dieci volte quelli di Cotonella, anche se vengono prodotti tutti in Cina.
Tuttavia il consumatore percepisce le produzioni extra Ue con meno favore.
Questo è sbagliato: in Cina ho 15 persone addette al controllo qualità e sono certificato Iso 9000. Voglio le certezze: Cotonella unisce prezzo e qualità.
Quanta produzione è stata delocalizzata?
Tutta: il 60% lo facciamo in Albania, con 600 persone. E ora abbiamo investito 4 milioni di euro: trasferiremo taglio e logistica. Il resto lo facciamo tra Cina e Tunisia. In Albania il costo del lavoro è il 20% in più della Cina ma ci siamo da 13 anni e va bene.
E.Sc.