(di Geminello Alvi)
Tra i punti all’ordine del giorno del prossimo presidente degli Stati Uniti ci sarà la crescita del debito federale; lo spiegano i vari dati rilasciati a febbraio dal Budget Office del Congresso. Solo dieci anni fa questo debito ammontava ancora al 35% del prodotto, ma adesso è già più del doppio; e tra un decennio a questi ritmi salirebbe a livelli mediterranei, con un deficit di bilancio previsto per il 2026 a del 5% del PIL. Il risultato sarebbe che se nel 2016, gli interessi sul debito federale sono pari a quasi il 16% delle entrate dell'imposta sul reddito delle persone fisiche, entro il 2026, gli interessi, anche con una risalita lenta dei tassi risulterebbero pari a oltre il 31% di tali entrate. Ne deriverebbero un insieme di esiti consueti altrove, per esempio in Italia, ma inusuali negli Stati Uniti.
Anzitutto il fatto che gli investitori stranieri possiedano più della metà del debito pubblico netto, non sarebbe facilmente gestibile. Un debito elevato richiederebbe un ben altro saldo commerciale e pertanto un dollaro debole, con conseguente diminuzione del livello di vita degli abitanti degli Stati Uniti. Inoltre un maggiore indebitamento federale implicherebbe una distorsione degli investimenti, come quella ormai consueta da decenni in Italia. Significherebbe prestiti minori al settore privato, minori investimenti da parte delle imprese, quindi una caduta della crescita della produttività e dei redditi reali. Uno scenario che minerebbe quella capacità d’innovazione grazie alla quale, dagli anni dell’amministrazione Clinton, gli Stati Uniti sono riusciti a invertire il loro declino.
E comunque il taglio della spesa sarà piuttosto complicato. La quota del prodotto interno destinata alla difesa è scesa dal 7,5% del prodotto nel 1966 al 3,2% di quest'anno, e secondo il Congressional Board Office è destinata a cadere al 2,6% nel corso del prossimo decennio. Sarebbe la quota più bassa dalla seconda guerra mondiale, piuttosto improbabile da mantenersi in questo scenario geopolitico. Peraltro a essere cresciuti come osserva Martin Feldstein sono i mandatory programs saliti, dal 4,5% del Pil nel 1966, fino alla percentuale odierna del 13,3%. Sono composti in gran parte di benefici per gli anziani della classe media e di programmi di assistenza per i più poveri non inclusi nel welfare. Risulteranno piuttosto complicati da gestire per una presidenza democratica. Una presidenza isolazionista sul piano internazionale, e decisa a restringere l’intervento dello stato invece ci si troverebbe per paradosso a suo agio.