Voglio spezzare una lancia in favore dei decisori politici. Non è facile prendere le giuste decisioni sulla gestione di un territorio rurale, soprattutto quando coesistono diversi interessi che vogliono portare acqua al proprio mulino (metafora quanto mai azzeccata in riferimento alla pizza).
Ormai è ampiamente noto, grazie anche al tamburo battente della stampa, che nei recenti giorni l’Unesco ha riconosciuto la pizza napoletana come patrimonio immateriale dell’umanità (mi lascia sempre molto perplesso questa definizione dal momento che, per me, una calda e corpulenta pizza è un’entità materiale). Coloro i quali si sono impegnati, a giusta ragione, a sostenere questa candidatura hanno sottolineato l’immenso vantaggio di questo riconoscimento su un indotto territoriale variegato. Le cifre dell’indotto, facilmente rintracciabili in rete, fanno riferimento alla produzione degli ingredienti tipici della pizza, al settore della ristorazione, finanche all’industria del turismo.
Lo scorso 26 luglio si è tenuta la conferenza stampa finale del progetto PON BIOPOLIS, progetto concepito per risollevare le sorti del territorio agricolo marginale della Regione Campania puntando sulle così dette “tecnologie green”. Questo territorio è anche culla di un altro patrimonio immateriale UNESCO, la dieta Mediterranea. Questi due prestigiosi riconoscimenti, unitamente al patrimonio culturale ed artistico, fanno del territorio rurale Campano un’area molto delicata per ogni intervento finalizzato al recupero rurale.
In occasione della conferenza stampa, i relatori hanno esposto, con sentito compiacimento, i significativi e lodevoli risultati tecnici, maturati durante il progetto, che hanno consentito di ottenere manufatti a partire da biomasse, sia coltivate che da scarto. Alcuni di questi manufatti possono far parte della componentistica di un’auto, che è stata definita ecocompatibile per la natura bio delle plastiche che la compongono. Basta la loro origine bio per definire queste plastiche eco-compatibili? L’etichetta bio è sufficiente per definire la filiera sostenibile? La mia risposta è no. Un risultato tecnico, vale a dire la capacità di convertire le biomasse in bioplastiche non è l’unica spiegazione. Sono necessarie diverse valutazioni nell’ambito dei domini ambientale, sociale ed economico per definire questi risultati tecnici eco-compatibili e sostenibili. Innanzitutto questi oggetti non sono biodegradabili, quindi si portano dietro tutti i problemi di fine vita di un prodotto plastico di origine fossile. Quindi la differenza è soltanto nello stock utilizzato: da biomasse per le bioplastiche, da fossile per le plastiche convenzionali. La filiera produttiva delle bioplastiche presenta diverse criticità e punti deboli, soprattutto in relazione alla narrativa dominante che assegna a queste filiere un ruolo di volano nella crescita economica. Le attuali società sviluppate hanno raggiunto questi livelli di crescita perché hanno potuto utilizzare lo stock fossile, caratterizzato da un’elevata densità di potenza e di materia, a costi molto bassi. Insomma hanno potuto utilizzare con costi economici molto bassi di sfruttamento (lavoro umano, energia investita e tecnologia) il grande lavoro fotosintetico di milioni di anni. Con la green economy si vorrebbero ottenere gli stessi risultati con la fotosintesi di un solo anno.
Le criticità delle bioplastiche sono quindi di varia natura.
- Problemi di natura tecno-economica: (i) disponibilità variabile dello stock (non è un rubinetto come il petrolio, quindi inciderà sulla filiera produttiva e sul costo variabile del prodotto); (ii) necessità di strutturare dei contratti collettivi per l’elevato uso di territorio; (iii) costi della biomassa non competitivi con il petrolio.
- Problemi di natura socio-economica: questo nuova filiera produttiva non genera nuovi posti di lavoro, come spesso si sbandiera, ma converte semplicemente il contadino da produttore di cibo a produttore di materia prima per uso industriale. La bassa redditività delle coltivazioni (la più promettente è la canna comune) rende necessario l’intervento delle incentivazioni statali per rendere desiderabile al contadino il suo contributo nella filiera produttiva.
- Problemi di natura ambientale: nonostante la coltivazione di canna comune sia a basso input di chimica e di irrigazione, necessità di molto lavoro meccanico, estremamente energivoro.
ll problema ambientale più evidente, sul quale voglio concentrare la maggiore attenzione è soprattutto associato all’uso del territorio. Uno dei punti cardine dei così detti approcci di seconda generazione della green economy, è rappresentato dall’uso di coltivazioni no-food e di terre marginali. Sono definiti marginali quei territori caratterizzati da scarso profitto economico. Quando l’agricoltura si è trasformata da attività di sussistenza ad attività di profitto, sono state evitate le aree naturalmente marginali e quindi poco redditizie. Quindi l’agricoltura intensiva di profitto si è concentrata sulle aree più fertili, determinando nel tempo la marginalizzazione di alcune di queste aree. Questo processo è particolarmente evidente in Campania nelle aree collinari coltivate per decenni a grano da farina (non a caso uno dei prodotti fondamentali della pizza) dove le pratiche agricole intensive, associate alle caratteristiche topografiche, ne hanno ridotto la fertilità e quindi la redditività. L’utilizzo delle terre marginali per uso industriale non risolve il problema della de-marginalizzazione, dal momento che il nostro pianeta è di dimensioni finite. Si genera un processo di esternalizzazione, vale a dire che la produzione di grano o di altro cibo si concentrerà su altri territori, nella stessa regione o fuori regione, in questo secondo caso si aggiungono anche i costi economici ed ambientali del trasporto.
Sono quindi necessari degli studi molto più accorti ed integrati per fornire al decisore politico validi strumenti per la programmazione. In caso contrario si rischia di trovare un cruscotto di auto come ingrediente della pizza.