Il grido del volontario della Sea Watch3: "Così la Guardia costiera libica lascia annegare i migranti"



07 novembre 2017,21:06

"La mamma di quel bambino è devastata, ora sta assieme alle altre donne, sue amiche. Viene dalla Nigeria. Sono state recuperate dall'acqua, molte di loro hanno anche bevuto. Hanno rischiato di annegare. La maggior parte del tempo la passano dormendo, quando sono sveglie piangono. Si scambiano poche parole, sono sfiancate dalle energie spese per sopravvivere, per non annegare".

Parla Gennaro Giudetti, operatore volontario a bordo della Sea Watch3, nave della onlus Sea Watch, battente bandiera olandese. Assieme all'equipaggio è stato protagonista di un rocambolesco salvataggio al largo delle coste libiche, dopo lo speronamento accidentale di un gommone da parte della Guardia costiera libica. Almeno 5 morti quattro dei quali recuperati da nave Aquarius, anche il cadavere di un bimbo di circa trenta mesi. Molti dispersi. Il padre del piccolo forse è tra i corpi ripescati da un altro equipaggio. "La situazione a bordo è delicata - racconta Gennaro - gli spazi sono limitati..." anche la convivenza diventa questione di equilibrio.

Giudetti è alla seconda missione con Sea Watch: "È puro volontariato, sono un mediatore culturale. A giugno sono stato in nave per 15 giorni, ora sbarcherò il 17 novembre. Anche nella prima missione abbiamo purtroppo, tra i tanti migranti salvati, recuperato cadaveri ma mai così piccoli, e mai fino ad ora avevo assistito ad una violenza così, da parte della Guardia costiera libica. Nel loro intervento che paghiamo noi italiani, ieri non c'era nessuna professionalità, nessuna etica, nemmeno nell'approccio che hanno fatto al gommone in difficoltà. Ho visto gente picchiata, ho visto persone morire, questa verità deve essere urlata: ci lanciavano patate per ostacolarci, patate". 

Il giovane racconta poi ciò che ha vissuto, momenti che non finiranno mai nella sua mente: "Non è possibile che debba spettare a me decidere chi salvare o chi recuperare, non sono il Padreterno. Il punto è che non si deve arrivare a questo. Ieri a un metro e mezzo da me c'era una ragazza che mi tendeva la mano, io mi sono allungato verso di lei quanto potevo ma non sono riuscito ad afferrarla, l'ho vista annegare. Io sono un ragazzo e se voglio andare a cercare fortuna altrove pago un biglietto e vado ovunque con un permesso, un visto. Perchè loro non possono farlo? Davanti ai miei occhi ci sono i volti di decine di persone che non siamo riusciti a salvare, donne disperate, le loro facce, i corpi che galleggiano. E Poi i canti dei migranti felici non appena arrivano a bordo, le preghiere al loro dio. Questo non mi abbandonerà mai. Non mi abbandoneranno nemmeno le voci del coordinamento delle operazioni a Roma". 

Un comune denominatore è il terrore espresso da tutti, per un eventuale ritorno in Libia. "Riferiscono dell'attraversamento del deserto che è un inferno, dell'arrivo in Libia con caos terrore e morte. Alcuni tentano anche due volte la traversata magari perchè la prima volta sono stati beccati dai libici, incarcerati, torturati, e i segni si vedono sui loro corpi: le frustate, sono malnutriti disidratati. Il terrore della Libia è nelle loro parole, in inglese, in arabo in francese. E tutte le loro voci hanno la stessa dignità". Tra le tante storie che Gennaro ricorda c'è quella di una giovane eritrea, 14 anni: "Lei come tante eritree, si trovava in un campo nel Sud Sudan. Sono state rapite e stuprare dai beduini, e poi rivendute ad altri gruppi di beduini che hanno avuto un riscatto dalle loro famiglie. La ragazza di cui vi racconto era stata anche ferita da un proiettile. Riuscì ad imbarcarsi su un gommone rischiando anche questa volta la vita. Voleva, una volta arrivata in Italia, scappare per andare in Germania. 'Aspetta - le dissi - fai i documenti e poi parti sicura, è pericoloso per tè. Mi guardò e mi disse: 'dopo quello che ho passato, credi che io possa avere paura di questo viaggio?'. Le ferite che si portano dentro sono così profonde da non riuscire ad immaginare". 

 



07 novembre 2017,21:06

"La mamma di quel bambino è devastata, ora sta assieme alle altre donne, sue amiche. Viene dalla Nigeria. Sono state recuperate dall'acqua, molte di loro hanno anche bevuto. Hanno rischiato di annegare. La maggior parte del tempo la passano dormendo, quando sono sveglie piangono. Si scambiano poche parole, sono sfiancate dalle energie spese per sopravvivere, per non annegare".

Parla Gennaro Giudetti, operatore volontario a bordo della Sea Watch3, nave della onlus Sea Watch, battente bandiera olandese. Assieme all'equipaggio è stato protagonista di un rocambolesco salvataggio al largo delle coste libiche, dopo lo speronamento accidentale di un gommone da parte della Guardia costiera libica. Almeno 5 morti quattro dei quali recuperati da nave Aquarius, anche il cadavere di un bimbo di circa trenta mesi. Molti dispersi. Il padre del piccolo forse è tra i corpi ripescati da un altro equipaggio. "La situazione a bordo è delicata - racconta Gennaro - gli spazi sono limitati..." anche la convivenza diventa questione di equilibrio.

Giudetti è alla seconda missione con Sea Watch: "È puro volontariato, sono un mediatore culturale. A giugno sono stato in nave per 15 giorni, ora sbarcherò il 17 novembre. Anche nella prima missione abbiamo purtroppo, tra i tanti migranti salvati, recuperato cadaveri ma mai così piccoli, e mai fino ad ora avevo assistito ad una violenza così, da parte della Guardia costiera libica. Nel loro intervento che paghiamo noi italiani, ieri non c'era nessuna professionalità, nessuna etica, nemmeno nell'approccio che hanno fatto al gommone in difficoltà. Ho visto gente picchiata, ho visto persone morire, questa verità deve essere urlata: ci lanciavano patate per ostacolarci, patate". 

Il giovane racconta poi ciò che ha vissuto, momenti che non finiranno mai nella sua mente: "Non è possibile che debba spettare a me decidere chi salvare o chi recuperare, non sono il Padreterno. Il punto è che non si deve arrivare a questo. Ieri a un metro e mezzo da me c'era una ragazza che mi tendeva la mano, io mi sono allungato verso di lei quanto potevo ma non sono riuscito ad afferrarla, l'ho vista annegare. Io sono un ragazzo e se voglio andare a cercare fortuna altrove pago un biglietto e vado ovunque con un permesso, un visto. Perchè loro non possono farlo? Davanti ai miei occhi ci sono i volti di decine di persone che non siamo riusciti a salvare, donne disperate, le loro facce, i corpi che galleggiano. E Poi i canti dei migranti felici non appena arrivano a bordo, le preghiere al loro dio. Questo non mi abbandonerà mai. Non mi abbandoneranno nemmeno le voci del coordinamento delle operazioni a Roma". 

Un comune denominatore è il terrore espresso da tutti, per un eventuale ritorno in Libia. "Riferiscono dell'attraversamento del deserto che è un inferno, dell'arrivo in Libia con caos terrore e morte. Alcuni tentano anche due volte la traversata magari perchè la prima volta sono stati beccati dai libici, incarcerati, torturati, e i segni si vedono sui loro corpi: le frustate, sono malnutriti disidratati. Il terrore della Libia è nelle loro parole, in inglese, in arabo in francese. E tutte le loro voci hanno la stessa dignità". Tra le tante storie che Gennaro ricorda c'è quella di una giovane eritrea, 14 anni: "Lei come tante eritree, si trovava in un campo nel Sud Sudan. Sono state rapite e stuprare dai beduini, e poi rivendute ad altri gruppi di beduini che hanno avuto un riscatto dalle loro famiglie. La ragazza di cui vi racconto era stata anche ferita da un proiettile. Riuscì ad imbarcarsi su un gommone rischiando anche questa volta la vita. Voleva, una volta arrivata in Italia, scappare per andare in Germania. 'Aspetta - le dissi - fai i documenti e poi parti sicura, è pericoloso per tè. Mi guardò e mi disse: 'dopo quello che ho passato, credi che io possa avere paura di questo viaggio?'. Le ferite che si portano dentro sono così profonde da non riuscire ad immaginare".