E ’ grande, è grandissimo, è straordinariamente grande ed unico, Roger Federer, eppure è uno di noi, anche nel suo inarrivabile talento tennistico, nella straordinaria armonia atletica, nell’aggiungere per la sesta volta gli Australian Open alla collezione di tornei del Slam-record, portandola addirittura a 20 Majors, nell’aumentare ulteriormente la sua grandezza nell’Olimpo dei più incredibili atleti di sempre di ogni sport.
Perché ha reazioni umane, quando comincia male la partita, quando ha violenti cali di tensione psico-fisica, quando s’accende nei famosi “Momenti Federer”, quando vive i sali e scendi meno interpretabili, quando s’emoziona e piange in mondovisione.
E’ uno di noi perché, quando cerchiamo di colpire la palla gialla con la racchetta, pensiamo e rivediamo sempre e soltanto lui, nel gesto perfetto da manuale del tennis, non certo Rafa Nadal - il rivale storico di Roger, l’altro mitico ed indimenticabile protagonista degli anni 2000 - che pure tanto ha ottenuto da quel roteare di scimitarra, col top spin mancino esasperato.
E’ uno di noi perché, da quindici anni, in questo mondo senza valori e principi saldi, ci ritorna da mamma tv sempre uguale: leggero, elegante, giusto, ideale, familiare, inossidabile alla robotizzazione e all’omologazione, una delle ultime buone tradizioni, come la pasta fatta in casa.
Così deve intendersi anche il selfie che Rod Laver fa con Federer che piange in campo col sesto trofeo degli Australian Open: il padre del tennis dei padri, l’unico che ha chiuso due volte il Grande Slam, il mito cui è intitolato lo stadio di Melbourne, si riconosce anche lui nel campione-uomo che ci accompagna da quindici anni, ma che a tratti gioca anche meglio di Wimbledon 2003, quando mise la prima pietra miliare allo Slam.
Già allora non era perfetto, come tutti noi, e dilapidava occasioni e smarriva ora un colpo ora un’occasione, come fa anche contro il picchiatore selvaggio, Marin Cilic. Allora per insipienza tattica e testardaggine giovanile, oggi perché a 36 anni, anche un Highlander come lui, paga dazio fisicamente a un avversario di 29.
E, proprio come succede a noialtri, tutti i giorni, più passa il tempo, meno sappiamo in che condizioni ci alzeremo dal letto domattina. Non è certo implacabile e inarrestabile come i moderni super-eroi da video game, Nadal e Djokovic, che una volta messa la carica si fermano solo a fine match, per tuffarsi in una vasca piena di ghiaccio. Lui torna a casa, da moglie e figli, e magari scivola sul pavimento e si rompe un ginocchio per fare il bagnetto a uno dei gemelli. Alzi la mano a chi di noi non è mai capitato di rischiare un infortunio così sciocco!
Federer è limpido nelle sue reazioni. Lo è quando trema davanti a Nadal sulla terra rossa di Parigi e butta via set e partite, fino al punto da evitare il confronto con la sua kriptonite, come ha fatto saggiamente quest’anno, per dedicarsi alla conquista dell’ottavo Wimbledon. Lo è quando aggrega al clan un coach amico come Ivan Ljubicic perché ha bisogno di cambiare il rovescio, il servizio e l’attitudine, ma in fondo sa che ha già tutto pronto in casa, deve solo rispolverare i vecchi attrezzi.
Lo è quando esulta e poi piange, più sorpreso e commosso di tutti, davanti a questa seconda giovinezza, con addirittura tre nuovi titoli dello Slam, dal gennaio 2017, proprio quando tutti tutti erano convinti che i rivali gli avrebbero rubato anche il primato dei Majors. Lo è quando compromette gli Us Open per giocare un torneo in più prima di New York per tentare di riconquistare anche il numero 1 del mondo. Lo è quando partecipa, sinceramente felice, alla festa del tennis, alla tradizione, al lavoro degli anonimi raccattapalle, dimostrandosi sempre e comunque il poster ideale dello sport tutto. Non solo del tennis.
Perciò, sempre più, viene da augurargli di cuore di andare avanti, in campo, fino a 40 anni o finché ne avrà voglia come adesso. Con Nadal e Djokovic a mezzo servizio, con Murray fuorigioco, coi giovani che tardano a maturare, non è un’ipotesi peregrina. Anche se sarebbe meglio ricordarcelo così com’è oggi. Imperfetto nella sua perfezione. Uno di noi. Clonarlo non si può. I coreani ci stanno provando con il “nuovo Djokovic”, Chung, ma con Federer è molto più complicato. Esistono troppe variabili particolari, troppi pezzi ormai introvabili sul mercato. Roba classica, come i dischi in vinile e le racchette di legno, come le sane irrefrenabili lacrime di un uomo che pensa: “Ma quanto sono stato fortunato a trovare un amico anche nel mio avversario, Cilic, che, sul più bello, quando ha il match in pugno, s’è spento, al quinto set?”. Beh, ci meritavamo tutti un po’ di fortuna, caro Roger, amico degli ultimi quindici anni. Finché ci sarai tu, sul campo da tennis, ci sentiremo meglio anche noi.
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