AGI - “Sono pronto per scendere in pista!”. È una simpatica battuta ad aprire l’intervista di Livio Berruti con l’AGI, sessanta anni dopo quella straordinaria e leggendaria impresa diventata uno dei fotogrammi più belli delle Olimpiadi di Roma e un momento epico per lo sport italiano. “Roma 1960 è stata la miglior impressione dello sport romantico, pieno di calore e umanità, proprio nello spirito di come era nato nell' Ottocento sulla via dell’imitazione della cultura del passato”, aggiunge oggi l’81enne ‘torinese volante’ che il 3 settembre di sessant’anni fa nella finale olimpica dei 200 metri vinse in 20”5 battendo l’americano Lester Carney (20”6) e il francese Abdoulaye Sèye (20”7).
Berruti fu il primo europeo della storia a spezzare il dominio dei nordamericani sui 200 metri ai Giochi. Successivamente l’impresa riuscì solo al sovietico Valery Borzov (Monaco di Baviera 1972), all’italiano Pietro Mennea (Mosca 1980) e al greco Konstadínos Kedéris (Atene 2004).
Correva l’anno 1960. Un anno importante. C’erano state le proclamazioni di indipendenza di tanti Stati africani, la vittoria della Palma d’Oro al Festival internazionale del film di Cannes de ‘La dolce vita’ di Federico Fellini, l’avvento della trasmissione radiofonica ‘Tutto il calcio minuto per minuto’, e l’inaugurazione dell’aeroporto intercontinentale ‘Leonardo da Vinci’ di Roma Fiumicino. I Giochi di Roma furono quelli del mito Cassius Clay (il futuro Muhammad Ali) e del collega pugile Nino Benvenuti, entrambi oro in pesi diversi, di Abebe Bikila, il sergente etiope che vinse la maratona correndo scalzo e di Wilma Rudolph, ‘Regina’ delle Olimpiadi Romane per aver trionfato sui 100, 200 e 4x100. Certo, parlare della ‘Gazzella Nera’, quella donna che sconfisse la poliomielite, non si può non citare ‘Livio rubacuori’, al secolo Livio Berruti. L’immagine di Livio e Wilma passeggiare mano nella mano lungo le strade di Roma è diventata un simbolo di quelle Olimpiadi. “Wilma – racconta Berruti ancora con tanta passione –aveva uno sguardo talmente pieno di gioia, un sorriso che mi aveva ammaliato, ci siamo conosciuti al Villaggio olimpico e subito nacque la sintonia. Non riuscivamo a vederci in privato, gli allenatori americani non lo permettevano. Non ci capivamo ma ci guardavamo e ci sorridevamo. Come sempre lo sport ha superato tutte le barriere prima della politica. Pensavo di passare dalla fase platonica a quella aristotelica: mi ero preparato un piano”.
A Livio venne espressamente detto di “restare alla larga” dalla giovane sprinter entrata nel radar di un certo Cassius Clay. “Avevo architettato di invitare Wilma per una cena a Trastevere. Non ero bravo con le donne e poi il mio inglese era scarsissimo. Dopo la sua vittoria in staffetta sono andato al Villaggio ma non l’ho più trovata. Mi hanno detto che il Comitato olimpico americano non voleva pagare il soggiorno ad atleti che avevano già concluso le gare. Ci siamo rivisti a un successivo meeting a Varsavia e ad una celebrazione nel 1980, 20 anni dopo i Giochi. L’unico ricordo che mi rimane di lei è la tuta che mi regalò, che tutt’ora conservo e della quale se ne occupa mia moglie Silvia».
Ricordando la finale del 3 settembre, Berruti svela un aneddoto: “Quando vinsi la semifinale correndo il record del mondo di 20”5 ero sorpreso e mi sono chiesto, ‘adesso come faccio a fare la finale?’. Il dubbio l’ho risolto con una cosa che mai si deve fare: avevo saltato il riscaldamento”.
Parlando della carriera complessiva, Berruti cataloga come il momento più bello della carriera un episodio semi-privato ai Mondiali militari a Bruxelles del 1961. “Allo stadio Heysel (quello tristemente noto per la strage dei tifosi della Juventus del 1985, ndr) un signore anziano mi si avvicinò piangente, mi prese le mani e le baciò: era un immigrato italiano che voleva trovare la forza per superare le angherie che subiva durante il lavoro”, rivela colui che venne soprannominato anche il ‘poliziotto volante’.
Berruti fu anche al centro di avventure sportivo-politico-sentimentale. Sull’aereo che lo portò a Mosca, allora capitale dell’Unione Sovietica, sulla tratta da Milano a Praga chiese al suo vicino di posto cosa avrebbe potuto visitare in cinque ore di scalo. Fu lui stesso ad offrire a Livio il tour attraverso la capitale cecoslovacca. Quell’uomo era Francesco Moranino, partigiano comunista che stava lasciando l’Italia perché condannato per aver favorito l’uccisione di partigiani non comunisti. In un secondo viaggio a Mosca, Berruti ad una festa conobbe una ragazza russa. “Era bionda, bellissima, tramite un atleta polacco che mi fece da interprete chiesi se voleva venire nel mio albergo: la ragazza salì sul taxi ma il tassista non si mosse – racconta –. Venni a sapere che c’era il divieto per i sovietici di familiarizzare con gli occidentali”. In merito all’atletica di oggi, l’oro di Roma ’60 dice, “il dramma è legato ai tempi, le gare si diluiscono e ci sono troppi spazi vuoti che sono difficili da accettare in un’epoca caratterizzata dalla velocità”.
Restando al tema velocità, Berruti all’AGI parla di Filippo Tortu. “Mi dispiace che a Padova abbia avuto un intoppo a livello muscolare ma Filippo ha lo spirito giusto. Mi piace anche Jacobs perché gareggia con la mia stessa maglia, quella delle Fiamme Oro”.