G iovedì all’Auditorium Parco della Musica di Roma è stata consegnata a Niccolò Fabi la Targa Faber, premio alla carriera consegnato ogni anno, da diciotto anni, all’interno del Premio Fabrizio De André, concorso che premia nuove realtà del panorama artistico italiano, in particolare musicale.
Il premio a Niccolò Fabi suona quest’anno più meritato che mai, “Tradizione e tradimento”, il suo ultimo album, ha raccolto celebrazioni entusiastiche da parte di pubblico e critica. Il cantautore romano sta pacatamente, con l’educazione e il garbo che da sempre lo contraddistinguono, entrando nell’Olimpo degli artisti più importanti della storia della musica del nostro Paese. Un Olimpo dove siede accanto a chi tramite le proprie opere, le proprie canzoni, è riuscito a declinare il proprio nome e, ahinoi, ormai il proprio ricordo, in mito assoluto. Proprio quel Faber che in qualche modo di tutto il cantautorato italiano è ormai diventato icona, esempio, padre, punto di riferimento.
Ma c’è qualcosa che, secondo te, ti lega a De Andrè?
“Non in maniera diretta, non è stato il mio ispiratore dal punto di vista tecnico/artistico. Il linguaggio che mi veniva più spontaneo non aveva proprio quella caratteristica narrativa e, soprattutto, musicale. Ma non è tanto quella l’importanza di Fabrizio De André, la sua importanza non è nell’aver generato dei suoi cloni, anzi quello forse è l’aspetto che mi preoccupa di più, perché il “deandreismo”, come tutti gli “ismi”, è abbastanza pericoloso, si rischia di prendere solamente l’aspetto formale e non la sostanza. Credo che il suo valore assoluto, oggettivo, aldilà della soggettività del gusto, sia l’aver nobilitato tantissimo la figura dell’autore di canzoni. Per chiunque sia cantautore essere accostato al nome di De Andrè è come un salto in una dimensione in cui si è potuto accettare il fatto che una canzone, una canzonetta, potesse entrare in un ambito culturale di serie A e non di intrattenimento fischiettante. Simbolicamente è stato fondamentale proprio per la nobiltà della forma canzone”.
Tu certamente non sei un “deandreista”, però è vero che appartenete comunque allo stesso universo di cantautori, usando una parola orrenda, “impegnati”. Ma se De André uscisse fuori adesso, la musica italiana se ne accorgerebbe?
“Questo è un pensiero che abbiamo fatto tante volte, ma non solo per De André, anche per la generazione nostra, che è successiva e poteva essere anche già un po' più edotta alle problematiche della comunicazione. E già comunque noi avremmo avuto difficoltà a trovare spazio in qualsiasi tipo di talent e probabilmente anche nella giungla del marketing su internet. Quel tipo di figura non credo che avrebbe avuto facilità. È fin troppo facile dire “no”, perché nessuno di noi si può immaginare De André a un provino a X-Factor, o De André pubblicare una foto su Instagram con uno spritz in mano sul lungomare di Genova dicendo “ehi ragazzi, vi aspetto stasera al Teatro della Tosse”. Di sicuro avrebbe faticato ad avere il profilo, la considerazione e la credibilità che ha avuto, e l’ha avuta perché era assolutamente fuori da questo meccanismo. È stato anche più facile per lui non essere inquinato da queste nuove necessità di farsi conoscere in maniera così spregiudicata. Però è indubbio che in questo momento quel tipo di cantautorato lì è decisamente ai margini dell’interesse nazionale”.
Un’altra cosa che certamente ti lega a De André è l’effetto che la tua musica ha sul tuo pubblico. Ai concerti questa sensazione esplode negli occhi di chi ti guarda. Ma cosa si prova a scrivere qualcosa che significa così tanto per altre persone? Specie un artista come te che scrive in maniera così personale…
“Si, ma io per personale intendo qualcosa che ha a che fare con l’intimità, che è un linguaggio, non un argomento. A volte si confonde l’intimo con l’intimità. Io non parlo dei cavoli miei, io tendo ad andare su una modalità di linguaggio dove alla fine trovi tutti, dove ognuno trova la propria intimità. Comunque si prova imbarazzo, anche orgoglio, perché poi sicuramente, per il tipo di tematiche che affronto io, spesso mi capita di essere compagno di quelle persone che magari scelgono la mia voce per accompagnare alcuni momenti speciali, soprattutto quelli più difficili. Le persone hanno utilizzato quello che ho scritto, specialmente negli ultimi anni, perché forse hanno sentito una compagnia vera, una voce e delle parole che riflettevano un po' il loro stato d’animo; quindi essere compagni di un momento importante, magari anche doloroso, per poter confortare, ammetto, è un motivo di orgoglio più grande che fare musica da ballo per una festa allegra. Per carità, abbiamo bisogno anche di quella, però ammetto che crea tra me e l’ascoltatore un rapporto un po' più intimo, più profondo”.
Grazie al tuo lavoro ti sei meritato di essere considerato uno dei punti di riferimento dell’attuale discografia, come vedi dal tuo punto di vista lo stato della musica italiana? Ci racconti cosa sta succedendo?
“Da un punto di vista di fermento e di quantità, è brulicante rispetto all’epoca in cui ho iniziato io, quando trovavi quattro/cinque proposte italiane e una trentina/quarantina di proposte estere. Adesso la maggior parte del pubblico italiano consuma musica italiana ed è un dato, secondo me, non secondario e assolutamente positivo; che abbia trovato dei narratori che parlano la nostra lingua, che sanno in qualche modo rappresentare lo stato delle cose di adesso e che stanno anche riavvicinando tantissime persone al live; molti di questi ragazzi fanno dei numeri incredibili che nessuno di noi ha mai fatto, tantomeno al primo disco o ai primi due dischi. È indubbio che hanno riacceso molto interesse sulla musica italiana, al di fuori anche del meccanismo radiotelevisivo, anche perché spuntano fuori da ovunque…”
Anzi, quasi esclusi da quel meccanismo…
“Assolutamente. Comunque quella è la notizia. Il dato. I ripensamenti possono sorgere se uno va a guardare nel dettaglio il lato artistico, o meglio: sono indubbiamente specchio del linguaggio trionfante, ma non solo nella musica, anche nella vita e nel mondo di adesso; anche nella politica, cosa che trovo anche più pericolosa. Sono tutti dei grandi esperti di comunicazione, mi sembra, quindi c’è una grandissima capacità e malizia nel trovare il linguaggio adatto. Prima questo lavoro “sporco”, più di vendita, veniva fatto dai “cattivi”, dalle case discografiche, dagli uffici stampa, l’artista era un po' sempre in conflitto con queste esigenze. Adesso sono bravissimi a vendersi da soli, non hanno bisogno di nessun altro. È un po' il passo dei tempi, questa capacità di marketing su se stessi, che si riflette con un potere comunicativo maggiore ma anche con una potenza artistica minore, un pochino più flebile, nel senso che i contenuti tardano ad arrivare, sono cose sempre molto piccole, non hanno tanto spessore, nel senso che non ci sono due o tre, quattro livelli di lettura, è tutto molto davanti, tutto un po' sloganistico, che è però il riflesso della comunicazione attuale, internettiana, da social network, che è seduzione pura, fatta in maniera semplice, arguta, che però non stimola un approfondimento, e questo lo trovo un limite artistico evidente, però credo che sia necessario questo passo per arrivare ad un’altra parte che ancora non si sa come sarà”
…e c’è qualcuno che ti convince di questa nuova generazione?
“Come linguaggio, in linea di massima, non mi interessano tanto. Trovo più sintonia, interesse, curiosità, in una fascia di mezzo. Giovanni Truppi, per intenderci, il mondo dei Dimartino, dei Colapesce, di quei “poveri” che sono arrivati un po' troppo prima che scoppiasse il fenomeno. Che sono lì e dicono “ma come?? Fossimo arrivati due anni dopo…”
…gli stadi!
“…esatto, gli stadi! E adesso invece no, perché noi no e loro si??”
…e ne hanno ben donde…no?
“Si, perché hanno delle storie con un’inventiva, una narrativa, un po' più di doppi fondi, di immaginario. è ovvio che il linguaggio di questi nuovi ragazzi ha un limite quando deve tanto del suo fascino alla sua spontaneità, naturalezza, rozzezza, ruvidità, per questo i primi dischi sono quasi sempre meravigliosi. Come quello di Franco126 e Carl Brave, perché sono proprio….paf! Vengono dal niente, si sente la bellezza della ruvidità. Il problema è che se la tua arma di seduzione sta tutta nella spontaneità, nella sincerità, nel momento in cui entri nella lavatrice, nel meccanismo, inevitabilmente la perdi. E allora quando i mezzi artistici non sono proprio così ampi, perdi il tuo carburante, il tuo propulsore”.
…e poi c’è la trap…
“Quel mondo lo conosco meno, è un linguaggio molto generazionale, lo sento leggermente più distante, anche se in alcuni casi è potentissimo. L’immaginario estetico che ruota attorno ai due mondi, trap e indie, è forte, non dico che sia bello, però è forte. Mi sembra solo tanto ripetitivo, ammetto che non conosco a fondo tutti e due i fenomeni, ma da una parte c’è questa continua ostentazione del successo raggiunto, di questo machismo dato dal “ce l’ho fatta e te rompo er culo, perché comunque prima stavo lì, ora invece c’ho etc etc…” è una cosa fica, potente, ma una volta….due volte…alla decima canzone che mi dice sempre la stessa cosa…Come quello scazzo dell’indie romano che “me va bene tutto, nun me va bene un cazzo, so innammorato macchissenefrega, però sti cazzi”, ecco questo “sticazzismo generale” per cui non c’è mai passione, non c’è mai una passione dichiarata, ma tutto un “po' annà bene ma po' annà male…”. Ma io ho 25 anni in più di questi ragazzi quindi è ovvio che faccio fatica ad entrare dentro la loro quotidianità, ma è tanto evidente negli uni e negli altri questa atmosfera di fondo; l’unica cosa è che la trovo un po' limitata come orizzonte, come contenuto. L’altro giorno sul furgone stavamo ascoltando Samuele Bersani, la quantità di immagini, di storie, di suggestioni, di favole, di trovate linguistiche…una canzone di Samuele vale quindici canzoni dei nuovi ragazzi, in termini proprio di quantità di finestre che ti aprono, non sto dicendo di bellezza della canzone, rientreremmo in un meccanismo non giusto, ingeneroso, però parlo proprio di quantità di contenuti, di finestre. Poi magari loro ne aprono una e la sfondano, però è una, per cui una volta che ho sentito una canzone all’interno del disco loro è come se avessi un po' sentito tutto, c’è un vocabolario veramente minimo. Efficace, efficentissimo, però minimo. Invece metto un disco di Samuele, anche di venticinque anni fa, tipo “Freak”, che è puro pop, ma ci sono dentro ottantasettemila idee”.
Siamo a venti giorni da Sanremo e questa nuova generazione, Pinguini Tattici Nucleari a parte, è stata praticamente esclusa. Forse è stato compiuto un passo indietro in questo senso rispetto ai festival di Baglioni. Tu cosa ne pensi? Visto che per te Sanremo è stato importante…
“Si, ma stiamo parlando di una storia finita 22 anni fa e pacificamente interrotta, perché comunque per fortuna non ho più tentazioni del genere. Ma non è un fatto ideologico, è proprio che il mio carattere e quelle dinamiche vanno troppo in conflitto. Mi sembra semplicemente quello che è: un programma con una regia televisiva. Baglioni, banalmente, avrà dovuto ascoltare le ragioni della televisione, ma se è stato chiamato lui come direttore artistico, da cantante, nel bene e nel male, gusti sbagliati o gusti giusti, ha avuto sicuramente una visione più musicale. In questo caso mi sembra veramente come se avessero deciso: “prendiamo un po' di aglio, una cipolla, olio…” un po' di tutto, per fare qualcosa che in qualche modo sia rappresentativa di tutti i vari target di ascolto…dei televotanti. Però, davvero, sono moderatamente disinteressato. Nel senso che mi interessa sempre meno la musica in televisione. Perde troppo della sua verità. Che sia un talent, che sia Sanremo, comunque da parte di tutti c’è un’inevitabile ragione televisiva che un po' oscura la libertà delle proprie scelte artistiche. L’ha fatto con tutti e l’ha fatto anche con me. Ripeto, da fuori mi sembra semplicemente un festival più televisivo con tutto ciò che l’essere televisivo comporta”.