Lo Stato Sociale, ovvero l'Indie come modo estremo di essere e di fare
La band bolognese di 'Una vita in vacanza' forse non è innovativa, né perfetta, ma funziona maledettamente, perché non ha la minima intenzione di essere né l'una, né l'altra cosa. Il segreto di Lodo Guenzi e i suoi fratelli è un altro

Benritrovati dunque con la rubrica che pretende, presuntuosa, di raccontare la musica dei figli ai genitori, dei giovani ai vecchi, che vi accompagna come fa Virgilio con Dante o Salvatore Aranzulla con gli italiani, in un mondo difficile da comprendere fino in fondo. Un inferno fatto di musica senza alcun supporto, che vive di ascolti in streaming, like, condivisioni, social media management e live in locali polverosi, appiccicaticci, che puzzano di birra, sudore e cicche spente mesi prima. Eppure paradossalmente è lì che il destino della musica italiana si gioca, in quel famoso panorama Indie che non vuol dire più niente, cui confini sono stati letteralmente cancellati dalla rete, che della musica si è impossessata lasciando al mainstream giusto l’amaro di un eco ridondante e del quale al suo pubblico frega poco o niente.
Questa perlomeno è la versione ufficiale, la realtà che noi tutti accettiamo, il nostro Matrix. Poi accade che qualcuno in quello che fa, più che altro nel significato di quello che fa, ci crede davvero, sbattendosene altamente di cosa sia consono e cosa no, di cosa sia consueto e cosa no, di adattarsi soprattutto a ciò che gli altri pretendono che tu sia. Credendoci davvero, pur prendendolo in giro, pur forse inconsapevolmente, in una scena indipendente che non esiste, ok, ma che comunque resta il nome con il quale chiamare un’intera generazione di artisti capace di cavalcare questo nuovo mercato, dominarlo fino a dettarne le regole o fino a implorare, anche faccia a faccia, con chiunque, affinché non esistano regole, che possa essere la musica semplicemente a parlare. Nessuno in Italia racconta meglio questa filastrocca dei ragazzi de’ Lo Stato Sociale, la band della quale parliamo questa settimana.
Chi sono Lo Stato Sociale
Albi, Bebo e Lodo si conoscono dai tempi del liceo a Bologna, nel 2002 vengono chiamati da una radio locale, Radio Città Fujiko, per condurre un programma e lì dopo qualche tempo gli viene anche in mente l’idea di poter produrre musica propria, così un’estate si chiudono in un garage con un basso, qualche strumento giocattolo e un frigo pieno di birre per provare a mettere in piedi qualcosa. Così, giusto per divertimento. Quel garage piano piano si riempie di amici, e poi di non amici, fino a non bastare più, allora si passa ai baretti di Bologna, alle librerie, alla strada. Ciò che fanno, qualsiasi cosa sia, piace.
Non è teatro canzone, non è avanspettacolo, e non è nemmeno quel tipico rock adolescenziale spigoloso e confuso, arrabbiato e arruffato, tipico degli inizi di una band. È qualcosa di inqualificabile e che, ripetiamo, comunque, piace da pazzi. Quei baretti infatti si trasformano presto in locali, prima di Bologna, che per quanto riguarda la musica è da sempre una cassa di risonanza enorme per farsi conoscere nel resto del paese, e poi ovunque li chiamassero, senza sosta, senza un piano, senza un calendario organizzato. Il gioco di complica e hanno bisogno di aiuto così si aggiungono alla ciurma anche Checco e Carota.
E poi arriva Matteo Romagnoli, che qualche anno prima aveva fondato la Garrincha Dischi, che nel 2010 gli fa incidere il primo EP, che si chiama “Welfare Pop”, otto brani buoni per alimentare un fuoco ancora non del tutto acceso, buoni per cominciare a girare in quei famosi localacci di cui sopra, a spendere il minuscolo cachet in birra scadente.
La svolta arriva nel 2012 con l’album “Turisti della democrazia”, parafrasando Silvio Berlusconi in una delle più grosse figuracce mai fatte dinanzi agli occhi del pianeta. Ecco, la politica, impossibile non parlarne raccontandovi de’ Lo Stato Sociale che, come intuirete dal nome scelto, hanno nettamente l’intenzione, magari non serissima ma certamente efficace, di raccontare una generazione, una società. Non lo faranno incendiando chitarre elettriche o prendendo a calci gli amplificatori, non è il loro stile, ma lo fanno prendendo in giro tutto e tutti, loro stessi per primi. In Turisti della democrazia spiccano brani che prendono Jannacci, lo stropicciano, lo percuotono, lo ritmano, lo “orecchiabilitano” e te lo ripropongono in salsa moderna e divertente.
Sono innovativi? No. Sono perfetti? No. E non hanno la minima intenzione di impegnarsi per essere né una né l’altra cosa. Ma funzionano, funzionano maledettamente. La gente li adora, i loro concerti sono veri e propri shows che oscillano tra il cabaret, il falò di ferragosto, il teatro-canzone, la Sagra del Bartolaccio e un rave. Pezzi come “Abbiamo vinto la guerra”, “Mi sono rotto il cazzo”, “Amore ai tempi dell’Ikea”, “Quello che le donne dicono”, sono dei minuscoli atti unici su ciò che siamo o perlomeno com’è che il mondo viene visto da loro. Non saranno mitologici ma sono estremamente intimi, mettono in musica e portano sul palco esattamente ciò che sono, e ciò li rende unici. E poi c’è “Sono così indie”, una canzone che ridicolizza questo nuovo microcosmo che si è formato come un fungo della discografia italiana ben prima che la infettasse tutta l’intera discografia italiana, fino a diventare ciò che è ora, qualcosa in più di un genere o un sound, ma proprio un modo di essere. “Quanto è indie questa cosa” si sente dire ai ventenni, ascoltate il pezzo de’ Lo Stato Sociale e capirete a cosa si riferiscono. Sono i primi a teorizzare l’indie come un modo di essere e fare.
Passano due anni e la band si ritrova in studio dopo millemila km percorsi su e giù per la penisola a suon di sold out, per incidere “L’Italia peggiore”, altro album in cui il Belpaese e la nostra società vengono vivisezionati. I ragazzi forse, perlomeno in questo, cominciano a sentire una certa responsabilità; i loro racconti sono si, divertenti, ma decisamente crudi. Sono canzoni che tagliano la testa al toro, che spiattellano la pochezza di certi aspetti del nostro paese, che procurano un sorriso amaro e consapevole.
Non è un caso infatti che l'album viene distribuito nei negozi a partire dal 2 giugno 2014, festa della Repubblica Italiana e nelle prime due settimane di vendite le royalties di ogni disco vengono devolute interamente ad Emergency; e che decidono che da quel momento in poi (ed è un’idea che condiziona ancora oggi la programmazione delle loro date) il prezzo di un biglietto per un loro concerto non dovrà mai superare i 15 euro. Una rivoluzione vera. Da questo album vengono fuori altre perle tipo “C’eravamo tanto sbagliati”, “La musica non è una cosa seria”, il capolavoro “Questo è un grande paese”, “Te per canzone una scritta ho” e “In due è un amore, in tre è una festa”. Ormai la band, pardon, il collettivo come preferiscono definirsi, è una realtà consolidata. Sbarcano pure sul palco del Concertone del Primo Maggio e fanno un figurone.
Nell’ambiente ora tutti sanno chi sono, cosa vogliono dire e cosa vogliono fare. Tutti i suoni sono più raffinati; non raffinati ma più raffinati, come se in realtà la loro voglia sia quella di evolversi musicalmente per riuscire più che altro a raccontare meglio ciò che vogliono raccontare. Il tutto sfocia nel loro terzo e ultimo album di inediti: “Amore, lavoro e altri miti da sfatare”, l’album della consacrazione, il loro migliore album. Questo perché sono cresciuti, come musicisti e come persone, hanno imparato ad essere più sottili in certi frangenti, a giocare coi testi accennando le intenzioni invece di sbatterle semplicemente in faccia; ora sono pronti per produrre brani come “Amarsi male”, “Buona sfortuna”, “Eri più bella come ipotesi”, “Niente di speciale” e “Vorrei essere una canzone”.
E siamo così arrivati al 2018, anno fondamentale per la band, anno durante il quale il loro successo li mette di fronte una serie di scelte che loro sanno benissimo dovranno affrontare e caratterizzeranno non solo la loro carriera ma la loro identità. Claudio Baglioni li vuole al Festival di Sanremo e loro accettano. Una particolarità di questo nuovo mercato discografico è la possibilità di confrontarsi con un filo diretto tramite social all’artista. Una volta se volevi contestare le scelte del tuo cantante preferito dovevi necessariamente abbandonare la conca che avevi diligentemente creato sul divano di casa, ora ti bastano pochi click. Il loro pubblico più affezionato non condivide la scelta e non tarda a farsi sentire, a tacciarli di alto tradimento, che Sanremo non c’entra niente con l’indie.
Ma in realtà chiunque li critichi non ha capito niente del progetto de’ Lo Stato Sociale, cui scopo è proprio andare lì a rompere gli schemi dove questi risultano più calcificati, e all’Ariston e in Rai sono marmorei. Infatti i ragazzi sbarcano in Liguria con un pezzo leggero ma, al solito, che racconta molto del loro mondo, della loro storia e del loro modo di vedere le cose; un po' furbo magari ma loro non sono certo degli idioti, ogni volta che hanno intenzione di dire qualcosa trovano sempre il modo più efficace per dirla. Il pezzo si intitola “Una vita in vacanza” e da lì in poi nulla sarà più come prima. È una hit, la loro prima vera hit, che l’Italia canta mentre resta ancora allibita dell’esistenza di una band che il pubblico della Rai non ha la minima idea da dove esca fuori. Arrivano secondi, come Elio e le Storie Tese nel ‘96, ma, esattamente come Elio e le Storie Tese ma 22 anni dopo, ne escono vincitori assoluti. L’Italia canticchia Una vita in vacanza come canticchiava allora La terra dei cachi.
La loro carriera cambia, qualche mese dopo Lodo, che è frontman in un collettivo che però non prevede frontman, dove ci si alterna al microfono con estrema scioltezza, viene chiamato a tornare sul palco del Concertone del Primo Maggio ma stavolta in veste di conduttore e lui, che ha frequentato l’accademia d’arte drammatica Nico Pepe di Udine (una delle migliori del nostro paese), e che quindi, non solo come musicista, su un palco ci sa stare, se la cava alla grande contribuendo a renderla una delle edizioni meglio riuscite degli ultimi vent’anni.
Una carriera che cambia, in particolare, bisogna dirlo, quella di Lodo, fino a una manciata di ore fa, quando il nostro decide di accettare di sostituire Asia Argento sul banco dei giudici di XFactor, completando così un triplete del tutto inedito nella storia della musica italiana, riuscendo a calcare nello stesso anno i palchi di Sanremo, Primo Maggio e XFactor. Una scelta che ancora una volta non è stata presa benissimo dai suoi followers; ma come? Prima scrivi “Nasci Rockstar, muori giudice ad un talent show” e poi ti vendi al nemico? Anche stavolta non ci si è capiti. Lodo, oltre a divertirsi un mondo a portare la sua personalità, la sua simpatia, la sua scioltezza e la sua sbracatezza nei posti dove queste sue doti possano stonare il più possibile, si è imposto evidentemente anche la missione di non lasciare che la sua popolarità si concretizzi esclusivamente nei selfie concessi per strada.

E poi, per favore, smettiamola con questa necessità di etichettare per forza tutto ciò che ascoltiamo. Un band indie non è più indie se va a Sanremo, se la loro popolarità oltrepassa i limiti della cuginanza, non è più indie se viene passata dalle radio, è indie solo finché chi la suona è triste e puzza, poi quella stessa musica che fino a ieri ti emozionava non ti rappresenta più; come sarebbe corretto allo stesso modo piantarla di fissare alla parete dei miti intoccabili buoni solo per lamentarci continuamente di un livello altissimo che non verrà mai più raggiunto; l’abitudine malsana (cioè che proprio fa male) di giudicare sfigato qualsiasi artista non si sia prima presentato in tv, quell’anacronistico e borghese cliché secondo il quale se non passi dal piccolo schermo non esisti. Perché se si continuerà a difendere sempre la propria idea di musica finirà che la musica resterà sempre uguale a se stessa. Basta, facciamo che la musica parli da sé, facciamo che ognuno è libero di essere ciò che vuole ovunque gli pare e che i punti di stima si guadagnino sempre e solo sul campo. Facciamo che chiudiamo un po' la bocca (e i social) e cominciamo ad aprire le orecchie.
Questo essenziale manuale è rivolto a quei genitori che non vogliono restare indietro, che vogliono capirci di più del mondo dei loro figli attraverso ciò che, come accade per tutte le generazioni, li crescerà e formerà più di quanto loro, mammà e papà, ne avranno mai capacità e potenzialità. La musica. La loro musica. Prima di partire allacciate bene le cinture, mettete da parte i vostri dischi dei Beatles, Adrianone Celentano, Mina e Battisti, la tv in bianco e nero, Berlinguer, e ogni vostro singolo pregiudizio su quanto tutto ciò che avete vissuto e ascoltato voi fosse infinitamente più “giusto” del loro e, già che ci siete, eliminate per sempre anche l’utilizzo del termine “giusto”, che non credo abbia mai significato alcunché a parte tirare una linea rispetto a ciò che è “sbagliato”. Antitesi che potrebbe contribuire non poco a formare una generazione di iscritti a Casa Pound.
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