Chi è Coez, che fai fatica a catalogare in uno scaffale per argomenti
Manuale per genitori indi(e)pendenti/7 Tutti lo amano. Forse perché anche gli ascoltatori non fanno i salti di gioia all’idea di essere incasellati in un genere, perché chi ama la musica è talmente abituato a farla propria, a commutarla in una feticcia declinazione di sé stesso che poi si sente quasi in colpa quando piacciono cose diverse

Gemitaiz sul palco dell’Indiegeno, uno dei tanti splendidi festival che riempiono l’estate italiana, ha appena finito di cantare Davide e richiede un applauso per il suo amico Silvano “uno che dopo dieci anni ce l’ha fatta e doveva farcela già molti anni fa”. Ovazione. L’amico di cui parla il rapper è il collega Silvano Albanese, in arte Coez, e non c’è artista che non sia d’accordo col fatto che Silvano avrebbe dovuto raccogliere ben prima i frutti del suo lavoro. Ma poi quell’attenzione è arrivata e ora Coez non lo ferma più nessuno. Quindi allacciatevi le cinture perché sta per investirvi un treno da più di 60 milioni di visualizzazioni, come quelle macinate su Youtube da La musica non c’è, ed una raccolta di sold out negli ultimi due anni da permettergli di guardare praticamente tutti i colleghi con lo specchietto retrovisore.

Chi è Coez
Silvano Albanese nasce nel 1983 a Nocera Inferiore, a tre anni il padre trasferisce la famiglia a Roma per poi abbandonarla, lasciando un vuoto nel cuore che Silvano canterà più tardi in un pezzo struggente dedicato a sua madre dal titolo E yo mamma. Nasce writer per le vie di Roma e passa alla musica quando si rende conto che una scritta può essere coperta da un altro graffittaro, una canzone no.
E allora ecco che arrivano gli anni in cui non si può proprio fare a meno di essere un adolescente stronzo; vestiti larghi, canne, orari sballati, indiscutibilmente gli anni più belli della vita di un uomo. E con loro arriva anche il rap. Ed è proprio col rap che inizia, per poi virare verso qualcosa di unico e innovativo, ma mantenendo sempre il suo nome d’arte, il suo tag, ancora oggi presente in via Libetta a Roma, quel Coez che sembra per lui significare la sua storia, il senso di tutto ciò che ha fatto e andrà a fare.
Lo abbiamo definito rapper infatti, è vero, ma l’etichetta sulla scatola non corrisponderebbe esattamente al contenuto; lo hanno infilato nell’immenso pentolone dell’indie, cosa che lo ha aiutato a conquistarsi anche quella fetta di pubblico, ma lui con quell’unisona litania ha poco a che fare; allora i maniaci dell’ordine a tutti i costi lo hanno buttato in un pentolone ancora più ampio, quello del pop, ormai talmente vago che qualsiasi cosa ci metti difficilmente sbagli, ma anche lì Silvano ci sta scomodo.
La verità, se mai ne stessimo davvero cercando una, è che Coez si è praticamente inventato un genere tutto suo; è stato il primo ad intuire, già nel 2013 con il bellissimo disco Non erano fiori che l’Italia si stava sintonizzando su ritmi diversi; ritmi, appunto, che non sono rap e non sono nemmeno pop, ma che il pubblico ha accolto con lo stesso entusiasmo di una persona nata sorda e alla quale ritorna a funzionare l’udito dopo vent’anni di silenzio. E da lì la sua vita cambia, inizia a viaggiare come una trottola per l’Italia, e osservando, di club in club, come il pubblico diventava sempre più numeroso.

Ma la bomba esplode quando sbarca in rete La musica non c’è. Il singolo in questione segna, con una linea netta, il perimetro dentro il quale lavora Coez e che al momento ospita esclusivamente Coez. Un cerchio disegnato sulla sabbia dove al momento nessun altro ha il diritto di stare a parte lui. Il cantautorato prestato a questo meraviglioso genere indefinito che ti suona nelle orecchie come un rap e ti toglie qualcosa come solo i grandi pezzi sanno fare; che ti avvolge col suo sound, che ti arriva malinconico e struggente come un blues ritmato. Boom. Mai titolo di un album si rivelerà così scientificamente profetico: Faccio un casino. Coez diventa improvvisamente il più ricercato artista della scena italiana, l’artista che pare abbia trovato la formula magica per riunire sotto lo stesso tetto critica, pubblico di tutte le età e ultimamente anche radio e tv, due media che provano in tutti i modi e fino all’ultimo a restare sordi e ciechi rispetto a tutto ciò che sta fuori dal solito circolo arrugginito della discografia italiana.
Tutti amano Coez. Questo forse perché anche gli ascoltatori non fanno i salti di gioia all’idea di essere incasellati in un genere, perché chi ama la musica è talmente abituato a farla propria, a commutarla in una feticcia declinazione di sé stesso che poi si sente quasi in colpa quando piacciono cose diverse. Per cui un rockettaro potrebbe ascoltare Cesare Cremonini nella propria cameretta guardingo come se stesse sezionando le immagini di un porno. Un amante del rapper old school potrebbe affrontare il proprio gradimento per un pezzo della Michielin affondando la testa dentro un cuscino chiedendosi in lacrime “perché? Cosa mi sta succedendo?”. Nulla è la risposta, ovviamente. È solo che alla musica possiamo dare quanti nomi vogliamo, ma alla fine la sua essenza diventa tanto intraducibile quanto indomabile. Se ti prende ti ha preso, e sei fregato.
L’argomento non gli è affatto nuovo e il problema (che problema proprio non è) lo stesso Coez lo affronta, com’è giusto che sia, con estrema naturalezza: “La mia musica è strana, non sono mai stato abbastanza rap per il rap, abbastanza indie per l’indie o abbastanza pop per il pop, ma sono tutte e tre le cose, o anche quattro, se ci aggiungi il cantautore. Arriverà un momento in cui tutti capiranno quello che faccio e mi accetteranno per quello che sono”.
In realtà quel momento per il pubblico è arrivato da un pezzo, e la risposta all’artista di adozione romana è stata talmente forte che Silvano ha già annunciato che fino al 2019 di lui non sentiremo più parlare, che deve riprendersi da due anni particolarmente pieni, ma in cantiere ha già qualche pezzo, almeno uno in combutta con quel gran genio di Niccolò Contessa, il Tyler Durden dell’indie italiano, colui che ha scoperto la formula e diffuso il virus, prima mettendoci la faccia col progetto I Cani e poi restando dietro le quinte di questo spietato Fight Club come autore e producer dalle orecchie d’oro.
I temi che affronta Coez non sono quelli tipici del rap, una comunità, lo abbiamo scritto più volte, più permalosa di un circolo di cucito, che gli ha voltato le spalle quando a lui è venuta la malaugurata idea di voler fare del suo talento musicale il cavolo che voleva. Quindi tanto amore, tanta vita, tanta realtà e troppe poche droghe, troppi pochi reati da rappare. E allora, che figo sei se non confessi nemmeno un furtarello o un consumo non abituale di codeina? Questo in realtà, a prescindere dai gusti musicali che inevitabilmente cambieranno con la maturazione, dovrebbe preoccuparci rispetto a ciò che ascoltano i nostri figli. Perché quei contenuti risultano più affascinanti rispetto a quelli che facevano battere i nostri cuori alla loro stessa età? Non preoccupa nessuno che il sentimentalismo stia diventando così ferocemente argomento da sfigati? A noi si. Forse anche per questo promuoviamo a pieni voti il lavoro di Silvano Albanese.
Questo essenziale manuale è rivolto a quei genitori che non vogliono restare indietro, che vogliono capirci di più del mondo dei loro figli attraverso ciò che, come accade per tutte le generazioni, li crescerà e formerà più di quanto loro, mammà e papà, ne avranno mai capacità e potenzialità. La musica. La loro musica. Prima di partire allacciate bene le cinture, mettete da parte i vostri dischi dei Beatles, Adrianone Celentano, Mina e Battisti, la tv in bianco e nero, Berlinguer, e ogni vostro singolo pregiudizio su quanto tutto ciò che avete vissuto e ascoltato voi fosse infinitamente più “giusto” del loro e, già che ci siete, eliminate per sempre anche l’utilizzo del termine “giusto”, che non credo abbia mai significato alcunché a parte tirare una linea rispetto a ciò che è “sbagliato”. Antitesi che potrebbe contribuire non poco a formare una generazione di iscritti a Casa Pound.
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