S uo padre Fernando, fornaio e tenore dilettante, preoccupato per le insicurezze del lavoro artistico lo voleva professore, la sua primogenita Lorenza, quando era già famoso, da bambina scrisse in un tema che suo papà di mestiere faceva il ladro, visto che lavorava di notte e aveva una valigia piena di baffi e barbe finte. Vita, arie, gloriose gesta artistiche e filantropoche, viaggi, amori per le donne e per la cucina modenese del tenore con la mission di ridurre la distanza tra lirica e popolo, scomparso nel 2007, riempiono i 114 minuti del docufilm “Pavarotti” del premio Oscar Ron Howard: prodotto da Imagine Entertainment e White Horse Pictures in collaborazione con TimVision e Wildside è stato presentato alla Festa del cinema di Roma e sarà nelle sale italiane soltanto il 28, il 29 e il 30 ottobre.
Un’operazione cultural-commerciale a tutto tondo visto che in occasione dell’uscita saranno pubblicati per Decca Records il nuovo greatest hits di Pavarotti che raccoglie i suoi grandi successi, tre cd con 67 brani e la colonna sonora del film che contiene due inediti: “Miserere” con Zucchero e Andrea Bocelli e l’Ave Maria di Schubert con Bono.
Costruito come un’opera in tre atti, con "Nessun dorma" come ritornello emotivo dominante, "Pavarotti" è un ritratto colonizzato dal sorriso e dalla gioia di vivere del tenore che da bambino rischiò di morire di tetano, esperienza che, si racconta nel docufilm, gli ha donato uno sguardo e un atteggiamento sempre positivo verso la vita.
Una personalità dirompente sviscerata e ricostruita con interviste al tenore recuperate da materiale d’archivio, filmati inediti, foto familiari, la riproposizione del famoso concerto dei tre tenori a Caracalla, lui, Carreras e Domingo impegnati in una commovente gara di eccezionalità e raccontata soprattutto attraverso 53 interviste condotte tra New York, Los Angeles, Montreal Londra, e Verona tra l’aprile del 2017 e il giugno 2018, ventidue delle quali compaiono nel film. Parlano la prima moglie Adua (della vita povera da bohemiennes agli inizi del matrimonio, dei tradimenti e degli spaghetti con cui lo imboccò in ospedale quando era morente) le sue prime tre figlie, la seconda moglie Nicoletta Mantovani, anche attraverso la telecamera con cui riprendeva il suo uomo: “Eravamo in epoca pre-smartphone, ci avevano regalato una piccola telecamera e ci divertivamo anche a giocare a “se fossi un fiore”, “se fossi un frutto” ha raccontato lei alla Festa del cinema, spiegando che per educazione e gentilezza d'animo Howard le ricorda un po' il suo Luciano ed era quindi il migliore a cui affidare il racconto della vita del tenore.
A ricostruire non proprio agiograficamente la personalità di Pavarotti ci pensa nel docufilm Madelyn Renée, sua assistente e soprano, che dopo aver condiviso con lui anni di lavoro e sentimento clandestino lo lasciò “perché continuava ad essere sposato con Adua”, deludendolo parecchio tanto che, racconta, quando lo andò a trovare morente, lui era ancora arrabbiato. E poi parlano i suoi manager, insieme a Josè Carreras, Placido Domingo e, tra gli altri, Bono Vox che racconta come con la sua caparbietà e stringendo pure un’amicizia telefonica con la sua domestica italiana, Pavarotti lo convinse a comporre “Miss Sarajevo” per “Pavarotti and friends”.
Dopo “The Beatles: eight days a week” e “Made in America”, dedicato a Jay-Z, con “Pavarotti” Ron Howard affronta il suo terzo documentario musicale con un genere, di cui, ha chiarito alla Festa del cinema seduto accanto al produttore Nigel Sinclair (lo stesso del docufilm sui Beatles) non è affatto un esperto: “Ho pensato che lavorare su Pavarotti sarebbe stato molto interessante” ha spiegato “perché il suo è un nome conosciuto in tutto il mondo ma la sua vita non lo è altrettanto. Pavarotti è stato un grande ambasciatore dell’opera, ha voluto portarla verso le masse e mi auguro che il mio film renda giustizia a questa missione: ho cercato di parlare anche a chi non è un appassionato di opera”.
L’ex protagonista di “Happy Days” e premio Oscar per la regia di “A beautiful mind” ha costruito il suo “Pavarotti” associando la vita dell’artista a quella delle sue arie: “Da non esperto di lirica, studiando le sue esibizioni ho visto che c’erano molte analogie tra la sua vita e le arie interpretate. Da regista ho capito che alcuni momenti non erano di pura esibizione, ma che esisteva invece un legame emotivo. Erano questi che ci interessavano, perché permettevano di vedere il genio artistico".
Il docufilm si apre con un video (mai reso pubblico fino ad ora) girato in Amazzonia dal flautista Andrea Griminelli che all’epoca viaggiava con il tenore, si chiude con il funerale di Pavarotti (con una coda del tenore che intona “Nessun dorma”) e si nutre delle testimonianze dei familiari: “La famiglia si è resa subito disponibile d affidarsi a noi, a farsi intervistare e a condividere video privati che non sempre restituiscono un’immagine lusinghiera di Pavarotti e questo ci ha consentito di vedere la sua vita in modo più completo”.
Howard ha chiarito di essere stato colpito soprattutto dalla sua storia privata e da quella della sua famiglia e di invidiare il modus vivendi del celebre tenore che moriva quasi sempre in scena, che prima di andar sul palco, pur consapevole delle sue qualità era nervosissimo, ma che era dotato di un’allegria contagiosa: “Da bambino è stato in coma e quell’esperienza gli dato la spinta per vivere ogni singolo giorno come un’opportunità che gli veniva data. Pavarotti afferrava la sua vita con un totale abbandono, ha avuto una vita avventurosa e complessa, talvolta ha anche ferito qualcuno".
Il docufilm insieme alla sua filantropia esalta anche la fierezza italica di Pavarotti, perché, ha chiarito il regista “Ci è saltata subito agli occhi la sua determinazione a non dimenticare mai le sue origini contadine e il cibo di Modena. Intervistando 53 persone abbiamo scoperto come portasse sempre con sé in giro per il mondo, le specialità della cucina emiliana e di quanto gli piacesse cucinare per gli altri”.
Il legame con la sua terra gli conferiva, ha sottolineato Howard, anche “un’umiltà onesta e perdurante: era legato alle sue radici, grato, riconosceva che la sua arte era un dono di Dio e quindi cercava di sfruttarlo a pieno, utilizzandolo per fare del bene agli altri”. Howard non ha partecipato in prima persona all’intervista con la prima moglie di Pavarotti, Adua (lasciata per Nicoletta Mantovani). “Denota molto coraggio: si vede che c’è il perdono, ma è un perdono che non prevede l’oblio e non dimentica il dolore”.
Il dolore arrivava oltre che dai tradimenti sparsi, per quello definitivo che portò il tenore al divorzio e a sposare poi la Mantovani. Il docufilm racconta anche di quando un rotocalco svelò la relazione clandestina con relativo scandalo planetario e le immagini di repertorio girate a Modena tra le signore sdegnate: “Fu un momento complicato, ma noi due con il nostro amore ci facevamo reciprocamente da scudo verso il mondo”, ha ricordato la Mantovani, intervistata prima del red carpet.
Dove, a rappresentare la famiglia c’erano solo lei, la terzogenita del tenore Giuliana Pavarotti e la nipote Caterina Lo Sasso.