U n anno fa, il 19 gennaio 2016, il cinema italiano diceva addio a uno dei suoi mestri, Ettore Scola, autore di pellicole indimenticabili che hanno raccontato la storia del nostro Paese con uno sguardo ironico e tenero, da 'C'eravamo tanto amati' a 'Una giornata particolare'. La sua figura e il suo spessore culturale ha continuato a rappresentare un punto di riferimento per registi e autori, malgrado dal 2003 avesse deciso di non dirigere più un film (salvo realizzare nel 2013 il film (auto)biografico 'Che strano chiamarsi Federico'). Uomo apparentemente spigoloso, molto colto e impegnato politicamente, fu salutato alla Casa del Cinema di Roma durante una cerimonia laica da colleghi e amici. In quell'occasione fu Pif, al secolo Pirfrancesco Diliberto, amico e collaboratore, a rendergli omaggio nella maniera che avrebbe preferito: con ironia e una certa cattiveria. Con una lettera che ha letto pubblicamente.
Lettera di Pif: caro Scola, se non voleva venire a cena con me poteva dirmelo
A un anno dalla scomparsa ci piace ricordare Scola attraverso le sue parole, pronunciate in varie interviste. A partire da quella concessa nell'ottobre 2015 per Repubblica a una delle più amate e importanti giornaliste cinematografiche italiane, Maria Pia Fusco, scomparsa poco più di un mese fa. Il regista aveva presentato alla Festa del Cinema di Roma il documentario che le figlie avevano realizzato su di lui, 'Ridendo e scerzando'.
Questo film parla di lei e anche degli autori di allora, che facevano cinema come atto politico, come impegno.
"Purtroppo l'impegno ce l'hanno anche i reazionari, anche il film in apparenza più neutro e innocuo è politico. Walt Disney è poco politico? Topolino è un americano reazionario, tradizionale, però è roosveltiano, risponde all'impegno del New Deal e di essere fieri dell'America. Quindi la parola impegno va chiarita con qualche aggettivo, anche nei film sulle vacanze di Natale c'è l'impegno di non parlare di certe cose, è politica anche questo".
Nel documentario c'è il racconto poco noto del rapporto con Pasolini.
"Dissi a Pier Paolo che avevo maturato da 'Accattone' l'idea di 'Brutti, sporchi e cattivi' e volevo dedicargli il film. Lui suggerì di fare una prefazione filmata, come nei libri un autore fa per uno più giovane. Finito di girare avrebbe visto il film, sarebbe venuto nelle baracche ricostruite e avrebbe parlato del genocidio culturale avvenuto nei dieci anni passati da 'Accattone'. Mentre giravo l'ultima sequenza, con Manfredi, arrivò la notizia che a cento metri dal set avevano trovato il cadavere di Pasolini. È uno dei miei rimpianti".
A Malcom Pagani e Fabrizio Corallo, che lo hanno intervistato per il Fatto Quotidiano nel 2014, Scola spiegò che era sbagliato affermare che aveva ispirato il film premio Oscar di Sorrentino e poi raccontò chi sia stato il suo modello di regista e il suo rapporto con Alberto Sordi e Massimo Troisi. Infine parlò della vecchiaia e della morte
Si intuisce quello di un’intera generazione al tramonto anche ne 'La grande bellezza'. C’è chi ha scorto dirette filiazioni con 'La Terrazza'.
"Ne ho parlato anche con Sorrentino e pur capendo che gli spettatori sono in costante caccia di similitudini e specularità, mi sembra una scemenza. Sì, Jep Gambardella, Toni Servillo, ha un terrazzino a Roma, ma mi pare che i punti di contatto terminino lì. I due film non c’entrano nulla".
Lei lavorò con Sordi fin dagli anni ’40 e per lui scrisse con Steno 'Un americano a Roma'. Che rapporto c'era tra voi?
"Quando ho cominciato volevo diventare come Steno. Scriveva bene. Aveva una penna svelta, nuova, moderna. Lo avevo conosciuto ai tempi dei giornali umoristici, dove ero entrato presto, a 16 anni. Il modello cambia al ritmo dell’ispirazione, ma Steno era tra i miei. Con Sordi avevo fatto molta radio: Mario Pio, il Conte Claro, Grazie Amedeo. Alberto era acuto. Politicamente conservatore. Un vero intellettuale che per essere autore non doveva passare la notte sui libri. Aveva un’intelligenza rapidissima, capiva lo spirito dei tempi, orientava il pubblico all’immedesimazione non diversamente da Massimo Troisi, con una comunicazione tutta sua. Guardandoli, sapevi che qualcosa di Troisi o di Sordi, anche se non riconoscevi cosa fino in fondo, ti apparteneva indiscutibilmente. Anche Nando Mericoni, il protagonista di 'Un americano a Roma' era un’invenzione originale di Sordi. Steno si ispirò a uno degli episodi del suo 'Un giorno in pretura', ma girò un film meno luminoso ed efficace del precedente".
A 83 anni come convive con la vecchiaia?
"Anche se la verità è che vogliamo andare avanti fino all’ultimo per poi lamentarcene, la vecchiaia è una fregatura propinata dalla scienza. La vita si è allungata in maniera spropositata. Quando mio nonno Pietro festeggiò i 60 anni, noi ragazzi lo guardavamo attoniti: “Ma come cazzo ha fatto ad arrivare fino a qui?”. Di ottantenni ne ho conosciuti pochissimi. I miei amici più cari non hanno superato i 72".
Monicelli e Lizzani hanno deciso di dire basta da soli.
"Anche Lucio Magri se è per questo, ma ogni biografia fa storia a sé. Il gesto di Mario l’ho capito e in qualche modo non mi ha stupito. Quello di Carlo invece sì, a riprova di quanto i caratteri non determinino ogni scelta".
Un anno fa moriva Ettore Scola: l'ultimo saluto dei colleghi, da Maselli alla Wertmuller
Con Paola Jacobbi, che lo intervistò nel novembre 2012 per Vanity Fair, Scola trattò un argomento diverso: la longevità artistica e la necessità per un regista di ritirarsi per evitare di fare il 'verso' a se stesso.
Lei non gira un film dal 2003 ('Gente di Roma', film a episodi) e non credo abbia intenzione di girarne altri.
"Biologicamente è giusto smettere. Non ho nulla contro Manoel De Oliveira, ma insistere a 100 anni… Basta! Se penso anche a certi miei grandissimi colleghi, insomma, gli ultimi film era meglio se non li facevano".
Per esempio?
"Mario Monicelli. O Vittorio De Sica, che uscì di scena dopo aver firmato una cosa davvero molto brutta: 'Amanti' con Faye Dunaway e Marcello Mastroianni. Non l’ha visto? Ecco, lasci perdere".
Allora rottamiamo i registi?
"Sì. Il regista esperto è un ossimoro. È uno che non ricerca più. In politica, la penso diversamente. Un politico che decide dei destini della gente, non è mai esperto abbastanza. In questo momento storico del capitalismo morente, l’economia è scienza importantissima: affidarla a dei ragazzini non mi pare conveniente".
Ettore Scola con Massimo Troisi e Marcello Mastroianni nel 1989 sul set di 'Che ora è?'
Ettore Scola parlava spesso del cinema italiano e dei nuovi registi. E non era ottimista perché vedeva tanti singoli artisti che non riuscivano a formare un movimento come quello a cui aveva dato vita lo stesso Scola molti anni fa. In questa intervista di Rocco Femia realizzata al Festival del cinema italiano di Annecy, in Francia e pubblicata su Radici-press.net fa nomi e cognomi.
Come giudichi i film di oggi? In che maniera il cinema è espressione del paese?
"Adesso mi pare che anche le belle opere come quelle che sono uscite in questi ultimi anni, penso a Sorrentino, Garrone, Costanzo e tanti altri, ho come l’impressione che siano una indipendente dall’altra. Non formano un grande affresco italiano. Credo che questo non sia colpa dei singoli film, ma della mancanza di tessuto connettivo, di un comune denominatore, o forse una passione per il proprio paese che manca. In questo momento è difficile amare l’Italia, specialmente per gli italiani".
Vuoi dire che non emerge un vero sentimento nazionale?
"Vedi, per fare qualunque mestiere, certo, ci vuole una enorme dose di passione personale. Senza la passione non succede nulla, ma è necessario anche un affetto particolare per il paese in cui si vive. Senza l’affetto per l’Italia, non credo che anche grandissimi cineasti avrebbero trovato l’ispirazione per fare 'Roma città aperta', 'Ladri di biciclette' o 'La terra trema'...".
Per approfondire:
- Intervista di Maria Pia Fusco: "Fare il regista è un mestiere da bugiardi"
- Intervista di Pagani e Corallo: "Fosse stato per me, non sarei mai diventato regista"
- Intervista di Rocco Femia: "Ettore Scola: l'indifferenza è l'opposto dell'amore"
- Intervista di Paola Jacobbi: "Essere bugiardi vuol dire essere creativi"