Roma - In principio furono padroni delle città, addirittura accusati da Massimo D'Alema di voler dar vita a un potere da cacicchi, poi piano piano il governo centrale ha di nuovo rosicchiato il loro potere. Ora si è davanti a un bivio. Loro sono i sindaci delle città, dalle grandi alle piu' piccine. La loro nuova storia comincia nel 1993, con le prime elezioni comunali che mettono alla prova l'elezione diretta del primo cittadino e che, nel combinato disposto con la stagione di Tangentopoli, danno il via alla Seconda Repubblica. Le elezioni di giugno e novembre portarono la fascia tricolore a Marco Formentini a Milano, Enzo Bianco a Catania, Massimo Cacciari a Venezia, Riccardo Illy a Trieste, Adriano Sansa a Genova, Francesco Rutelli a Roma, Antonio Bassolino a Napoli, Vincenzo De Luca a Salerno, Leoluca Orlando a Palermo. Una vera e propria stagione dei sindaci, i primi a essere legittimati direttamente dagli elettori e portatori di una ventata d'aria nuova. Volti nuovi, partiti all'angolo, legittimazione popolare. Un mix che ne fece i guru di una nuova politica, piu' personalizzata, piu' mediatica, piu' concreta. E la politica rispose. A tratti blandendoli, a tratti bastonandoli. Il primo a reagire fu Massimo D'Alema, che dopo le elezioni comunali del '97 che confermarono lo strapotere dei sindaci, rispose alle mille critiche dei primi cittadini alle politiche nazionali partendo a testa bassa contro questi "accampamenti di cacicchi, ognuno con la sua tenda e la sua bandiera". Due anni dopo, ancora sulla cresta dell'onda, insieme a Romano Prodi, Antonio Di Pietro e Antonio Maccanico diedero vita all'Asinello, una nuova formazione politica che aveva come spina dorsale Centocittà, movimento di sindaci ulivisti, con la partecipazione fra gli altri di Massimo Cacciari, Maurizio Fistarol, Enzo Bianco, Francesco Rutelli. Sullo sfondo la polemica mai sopita tra società civile e professionisti della politica.
Ma i tempi cambiano, i governi centrali sembrano un pò gelosi della popolarità di questi primi cittadini. E piano piano recuperano terreno, per un combinato disposto di diversi fattori. Uno tra tutti il patto di stabilità. Imposto al governo nazionale dall'Europa, viene esteso qualche anno dopo, prima da Berlusconi e poi da Prodi, anche ai comuni. Vincolando cosi' le spese al saldo finanziario e tagliando le ali a sprechi ma anche a molti investimenti. La politica si muove, i partiti mostrano la corda, si disgregano e si riaggregano. Cinque anni fa una nuova ondata di sindaci, molti di loro 'arancioni' cioè di sinistra-centro, fa il pieno nelle città e rinverdisce i fasti di un rapporto diretto con i cittadini e di un nuovo modello di partecipazione. E uno su tutti, il dem Matteo Renzi, da sindaco di Firenze nel 2014 diventa presidente del Consiglio. Poi il rapporto tra governo centrale e sindaci va in affanno, la dialettica è aspra, i ping pong di accuse e recriminazioni sempre piu' frequenti. Il culmine è lo scontro tra l'esecutivo renziano da una parte e Luigi De Magistris dall'altra, a Napoli, nel solco della crisi che ha portato al 'licenziamentò di Ignazio Marino, a Roma, da parte del Pd. Già nel ventennale della legge sull'elezione diretta dei sindaci i costituzionalisti si interrogarono sulla validità del nuovo modello. E anche i saggi nominati dal governo Letta, in generale, si interrogarono sulla scelta tra investitura popolare diretta e indicazione dei partiti per i vertici delle istituzioni.
"Tornare indietro non sarebbe saggio, ci sono dei difetti ma non possiamo buttare il bambino con l'acqua sporca" spiega Francesco Clementi, costituzionalista che insegna all'università di Perugia. "I pregi dell'elezione diretta dei sindaci, introdotta dalla legge n. 81 del 1993, sono stati creare un dialogo diretto con i cittadini, l'accountabilty delle misure adottate, la rottura delle vecchie camarille, la personalizzazione, la nascita di una nuova classe dirigente e di una vera e propria carriera che, sul modello europeo, porta al governo. I difetti sono stati, oltre ad alcuni casi di sprechi e ruberie, la frequente assenza di una classe dirigente all'altezza, l'incapacità dei sindaci di fare squadra ed è anche mancata nella rete dei sindaci una autostrada, creata dai partiti, che li collegasse. I partiti cioè, già ampiamente in crisi, non sono stati capaci di fare perno su questa rete, lasciando i sindaci soli, senza rete. Ma tornare indietro è una follia ". Per Clementi ora " "i partiti devono accettare il modello dell'elezione diretta e accettare che il loro ruolo sia fondamentale piu' per costruire ed accompagnare il loro sindaco nell'attuazione del programma e nel rafforzamento delle scelte che via via dovrà fare, piuttosto che quello di considerarsi un'alternativa contro di esso. Scindere o lasciar percepire crepe nel continuum elettori-maggioranza-sindaco è sempre un errore, che gli elettori puniscono". Eppure, nel medio-lungo periodo, per il costituzionalista questo lungo duello durato ventitrè anni potrebbe giungere a un equilibrio. Con la riforma costituzionale i poteri tra governo centrale e autonomie, sia i comuni che, soprattutto le regioni, dovrebbero divenire trasparenti e giudicabili dai cittadini, portando piu' misura e convincendo anche chi vorrebbe tornare indietro rispetto all'elezione diretta ad accettare una volta per tutte un sistema che "resta insuperato". (AGI)