L'Italia dell'economia circolare

La “cultura della circolarità” nella società e nell’economia italiana. Un rapporto Agi–Censis

Prefazione

Il 18 dicembre 2017, nella sala della Regina della Camera dei deputati, la presentazione del primo rapporto sulla cultura dell’innovazione di AGI e Censis, aveva una prefazione illuminante. Firmata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, era tratta da un discorso pronunciato il 7 febbraio in una occasione internazionale solenne: a Lisbona, per celebrare le opportunità e i rischi del lavoro nell’era digitale, il capo dello Stato aveva guardato avanti invitandoci a riflettere su un nuovo modello economico. L’economia circolare. Se ne parla ormai da qualche lustro, ma è solo di recente che l’innovazione tecnologica l’ha resa non solo auspicabile ed etica, ma conveniente e quindi possibile. Per citare il presidente della Repubblica, “l’economia circolare è un modello produttivo che riduce gli sprechi e tutela l’ambiente e perciò può creare un circolo virtuoso di crescita ed essere una opportunità di sviluppo per i paese dello sponda sud del Mediterraneo”.

Del resto già il 24 maggio 2015, nel 22esimo capitolo dell’enciclica Laudato Sì, papa Francesco scriveva: “Il sistema industriale, alla fine del ciclo di produzione e di consumo, non ha sviluppato la capacità di assorbire e riutilizzare rifiuti e scorie. Non si è ancora riusciti ad adottare un modello circolare di produzione che assicuri risorse per tutti e per le generazioni future, e che richiede di limitare al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, moderare il consumo, massimizzare l’efficienza dello sfruttamento, riutilizzare e riciclare”.

Era insomma inevitabile che AGI e Censis si misurassero con questo argomento così importante eppure ancora sostanzialmente fuori dal dibattito politico e sconosciuto al grande pubblico. La presente indagine, che vuole essere la prima di una serie, prova a mappare l’attuale perimetro dell’economia circolare in Italia, a definire le opportunità di business e infine riporta la propensione ad adottarla di un panel qualificato di imprenditori, professionisti e ricercatori. La conclusione del Censis, ovvero che questo modello convenga all’Italia, punta ad aprire una discussione molto concreta sulle cose da fare.

Riccardo Luna
Direttore dell'Agenzia Italia

 

1.1. Il nuovo paradigma dell’economia circolare

Al di là dei macro-obiettivi fissati a livello globale che impegnano gli Stati, la conversione verso una crescente sostenibilità e riduzione degli impatti dei processi economici rappresenta un asse portante delle politiche industriali, in special modo per quelle dei Paesi più avanzati.

L’esigenza ormai ritenuta universalmente inaggirabile di produrre in modo sostenibile sta trovando nel paradigma dell’economia circolare una chiave concettuale forte che può diventare il vero di driver di un processo di cambiamento di portata epocale. Viene infatti posto al centro un modello di economia che, a partire dalla consapevolezza del carattere finito delle risorse, riduce e/o elimina lo scarto, differenzia le fonti di approvvigionamento di materia, recupera e ricicla i materiali, fa vivere il più a lungo possibile i prodotti di consumo, massimizzandone il valore d’uso.

Il successo, in quest’ambito, dipende, più di ogni altra cosa, da un cambio radicale di approccio, che punta a considerare risorsa - attribuendole un valore - ciò che sinora è stato considerato residuo di produzione. Questo sforzo – anzitutto concettuale - comporta una rimodulazione dei cicli produttivi, un nuovo modo di concepire prodotti e processi tecnologici: in sintesi, una modalità completamente nuova di produzione e di consumo.

L’approccio Cradle to Cradle (talvolta abbreviato in C2C, in italiano dalla culla alla culla) coinvolge tutte le fasi, dalla progettazione, alla produzione fino alla distribuzione all’uso e all’eventuale riuso per poi concludere con il riciclo e il recupero di materie “prime” rendendo, così, tutto il processo sostenibile e interconnesso. Si discosta quindi nettamente dal paradigma classico dell’economia lineare in cui le materie prime, attraverso l’applicazione di energia e di lavoro vengono trasformate con l’unico obiettivo di ottenerne prodotti vendibili, occupandosi in seconda battuta e concependoli come “rifiuti” gli scarti di produzione e dei prodotti a fine ciclo di utilizzo.

Con questa nuova chiave interpretativa, alcune tra le molteplici attività che comportano un uso più efficiente e sostenibile delle risorse materiali ed energetiche esistenti sono certamente:

  • il riutilizzo che permette di conservare il massimo valore dei prodotti. Questi infatti valgono molto di più rispetto alle materie prime che li compongono;
  • il riciclo a circuito chiuso, che comporta l'uso dei rifiuti per realizzare nuovi prodotti senza cambiare le proprietà intrinseche del materiale che viene riciclato (ad esempio plastica e vetro);
  • il riciclo a circuito aperto, noto anche come downcycling, che utilizza materiali recuperati per creare prodotti che hanno un valore inferiore rispetto a quelle prodotte in un circuito chiuso;
  • la bio-raffinazione, che permette di trasformare prodotti esausti in nuova materia prima in grado di avere alti potenziali energetici;
  • la riparazione e rigenerazione dei prodotti, che porta al loro ricondizionamento. In questo modo, rispetto al riutilizzo, c’è una conservazione ancora maggiore del valore iniziale del prodotto.

Per il mondo delle imprese si tratta essenzialmente di trasformare lo “spreco” in valore. Trasformare lo spreco in risorsa non solo ha senso dal punto di vista finanziario, ma permette di far affermare e sviluppare imprese ed economie in crescita senza far aumentare la necessità di risorse naturali sempre più limitate. Ciò consentirebbe di passare da una crescita basata sulle risorse a una nuova era di crescita basata sull’efficienza, in cui il concetto stesso di spreco verrebbe eliminato, grazie alla consapevolezza che ogni risorsa ha un valore potenziale al di là del suo impiego immediato nei processi produttivi.

La transizione verso l’economia circolare può inoltre creare nuove opportunità occupazionali sia per lavoratori con una bassa o media specializzazione, sia per professionalità ad elevata qualificazione.

Un esempio emblematico di alta specializzazione e di tenuta del tessuto produttivo è sicuramente quello offerto dall’industria energetica italiana, e da Eni in particolare, nella riconversione di asset industriali maturi o in dismissione in impianti green. Le bio-raffinerie di Marghera e Gela sono esempi di “circolarità” dove vecchi impianti, un tempo semplicemente “rottamati” sono stati trasformati e convertiti: i lavoratori continuano ad essere occupati, gli stabilimenti non vengono destinati all’abbandono e l’indotto continua ad essere tale con qualche variazione. Sul piano ambientale il vantaggio della riconversione corrisponde ad una forte riduzione delle emissioni dell’impianto insieme al fatto di evitare nuovo consumo di suolo. Peraltro questa opzione comporta anche un vantaggio economico, con costi di investimento assai più contenuti rispetto alla costruzione ex-novo di un analogo impianto.

 

 

1.2. L’economia circolare conviene all’Italia?

L’Italia ha certamente carte importanti da giocare in relazione al nuovo paradigma dell’economia circolare. A questo riguardo è importante segnalare alcuni elementi che pongono l’Italia “strutturalmente” in prima fila:

  • in primo luogo siamo un paese di trasformazione, privo di risorse naturali, e saper trasformare al minimo livello di consumo di beni naturali oggi può diventare una gran virtù. Il nostro Paese presenta il più basso consumo domestico di materiali grezzi in Europa (8,5 tonnellate pro-capite contro le 13,5 della media UE. Questo dato dipende da molti fattori strutturali (la densità di popolazione, il clima, i settori economici presenti, il tipo di risorse di si dispone), però consente di cogliere la posizione avanzata del nostro Paese per ciò che concerne l’impatto sulle materie prime;
  • a ciò occorre aggiungere che siamo tra i più bravi ad estrarre valore dalle risorse utilizzate. un importante indicatore di base della “circolarità” di un’economia è infatti l’indice di produttività delle risorse, ossia la capacità di generare valore aggiunto contenendone al massimo l’utilizzo. Complice la crisi economica che ha estromesso dal mercato le imprese meno efficienti, l’Italia si colloca oggi ai primi posti tra i paesi europei per quanto concerne la capacità di generare valore a partire dalle risorse impiegate nei processi produttivi (3,34 euro di Pil per ogni kg di risorse, contro un valore medio europeo di 2,2 €/kg);
  • Il terzo elemento da considerare attiene alla crescita costante di tutte le filiere di valorizzazione che si collocano a valle dei processi produttivi e di consumo. Tra i grandi paesi europei, ad esempio, l’Italia si colloca oggi al primo posto per “circolazione” di materiali recuperati all’interno dei processi produttivi (18,5% di riutilizzo contro il 10,7% della Germania). Avviamo a riciclo 48,5 milioni di tonnellate di rifiuti non pericolosi avviati (contro i 29milioni circa di Francia e Regno Unito).
  • anche con riferimento ai rifiuti le performance italiane sono molto migliorate negli ultimi 15 anni cambiando completamente il quadro esistente. Sulla totalità dei rifiuti prodotti (129 milioni di tonnellate) solo il 21% viene avviato a smaltimento (contro il 49% della media europea). Si tratta di un mercato complessivo superiore ai 23 miliardi/anno (15% del mercato europeo). Le imprese che operano nel settore sono circa 10500 ed occupano circa 133.000 addetti. La sola industria del riciclo si stima produca 12,6 miliardi di euro di valore aggiunto corrispondenti a circa l’1% dell’intero PIL italiano. D’altra parte, sulla totalità dei rifiuti trattati, l’Italia ne avvia al riciclo il 76,9% (36,2% la media UE). Anche il campo dei rifiuti urbani – un mercato che vale circa 10 miliardi di euro - la situazione è in rapida evoluzione. Nel 1999 il 68% dei rifiuti veniva mandato direttamente a smaltimento. Oggi questa percentuale è scesa all’8% circa;
  • infine, un ultimo elemento connesso con il concetto di circolarità riguarda l’attenzione degli italiani per il “second hand”. Nel 2017 il 48% degli italiano ha acquistato o venduto beni usati con una crescita dell’11% rispetto al 2016. Si tratta di un mercato che vale 21 miliardi di euro (1,2% del Pil). Considerando che il 42% degli acquisti è avvenuto online, si colgono immediatamente le connessioni tra la crescita digitale e le opportunità dell’economia circolare.
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Al di là degli elementi strutturali, il sentiment generale è certamente ben intonato come rivela l’indagine di campo di cui si da conto nei paragrafi seguenti. Ad esempio, è di ottimo auspicio il notevole interesse che il tema riveste presso la parte più attiva e dinamica del Paese, ossia presso gli imprenditori. Questo significa che si tratta di un paradigma fecondo, in grado di garantire partecipazione, senso della sfida, progettualità futura. In questa chiave appare molto più promettente rispetto al concetto di sostenibilità ambientale in tutte le diverse declinazioni con cui è stato presentato negli ultimi trent’anni. Inoltre, è probabile che si stia facendo strada l’idea che il connotato di “circular goods” possa contribuire a rafforzare il carattere distintivo delle nostre produzioni di Made in Italy.

Questi elementi dimostrano ampiamente che le condizioni di base per svolgere un ruolo da protagonista e di guida della transizione esistono davvero. Si tratta ora di assumerne consapevolezza e di far crescere la conoscenza e la fiducia nel nuovo paradigma. Si fa economia circolare solamente attraverso un coinvolgimento massivo di tutti gli attori sociali in gioco, e su questo punto l’Italia deve crescere molto, soprattutto nell’azione di indirizzo decisori centrali e nei comportamenti dei cittadini-consumatori. Riguardo al primo punto, si individua un freno in una normativa ancora poco attenta nel favorire l’impiego di materiali di recupero che, in molti casi, non sono utilizzabili in quanto inquadrabili nella categoria dei “rifiuti. Gli esempi al riguardo sono molti: dai pneumatici a fine ciclo (impiegabili proficuamente nella pavimentazione stradale), ad alcune tipologie di inerti da demolizione (impiegabili nell’industria delle costrizioni) fino ai materiali a base cellulosica recuperabili dai pannolini (attualmente il 3% dei rifiuti urbani italiani).

 

 

1.3. L’indagine Agi-Censis: una ricognizione sulla “cultura della circolarità”

Naturalmente la transizione verso l’economia circolare avverrà progressivamente, attraverso momenti di nuova consapevolezza, di desiderio di partecipazione, di assunzione di responsabilità, di individuazione di specifiche opportunità.

Non mancheranno certo né gli ostacoli (tecnici, giuridico-normativi, economici, ecc.) né le resistenze (culturali, soggettuali, antropologiche, ecc.).

È fuori di dubbio che il processo andrà in qualche modo favorito dall’intervento pubblico e che i singoli soggetti economici e sociali dovranno essere accompagnati attraverso specifiche policies.

Allo stato attuale si registrano le iniziative di soggetti associativi che si candidano a svolgere un ruolo di promozione/comunicazione attraverso la realizzazione di studi/rapporti di ricerca, eventi promozionali, censimenti delle buone pratiche oggi in essere, campagne di sensibilizzazione.

Quello che sicuramente ancora manca è un centro di monitoraggio in grado di valutare – nel corso del tempo - quanto e come la “cultura della circolarità” sta penetrando nella società e nell’economia italiana, quali sono gli ostacoli e le resistenze, in che modo i soggetti sociali ed economici accettano di mettere in discussione modus operandi e pratiche consolidate.

Non sappiamo, al momento, come si stanno attrezzando per sostenerla e promuoverla gli attori pubblici centrali e locali. Ad esempio non risulta evidente (e comunque non è misurato) il richiamo ai principi della circolarità nella programmazione dei fondi strutturali gestiti dalle Regioni. Non esiste un luogo di verifica della sensibilità e delle attese delle PMI nel loro complesso. Poco è dato di sapere su quanto il concetto di circolarità – se si esclude forse la questione del riciclaggio domestico dei rifiuti – sta penetrando nella società e nella cultura italiana.

Per cominciare a colmare questo vuoto Censis ed Agi, nell’ambito delle attività previste dal Diario dell’Innovazione, hanno messo a punto una rilevazione presso un panel qualificato di italiani che, per competenze, professione e ruolo sociale sono in grado esprimere la loro opinione su un tema complesso come l’economia circolare.

La rilevazione, che è stata condotta con l’utilizzo della piattaforma CAWI della Fondazione Censis nel mese di settembre 2018, ha garantito l’adesione di circa 2100 individui di profilo socio-culturale elevato. Una quota di questi (il 23,5% del totale) ha dichiarato di non conosce l’espressione “economia circolare” ed è stato dunque escluso dalla rilevazione.

Una ulteriore selezione  basata sul profilo professionale e su una conoscenza almeno di base del concetto di economia circolare ha consentito di raccogliere le opinioni di 1073 individui appartenenti alle seguenti categorie professionali: imprenditori, liberi professionisti, docenti universitari, dirigenti d’impresa e funzionari pubblici.

Questa duplice selezione ha consentito di disporre di un panel qualificato particolarmente robusto sicuramente adeguato per cogliere gli orientamenti e il “sentiment” sul tema da parte di soggetti che occupano posizioni e svolgono ruoli significativi nel panorama socio-economico del Paese.



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