Il 4 novembre 1918, in Europa, crollano gli imperi. Un secolo fa la fine della Prima Guerra Mondiale spazzava via il sistema feudale e multinazionale incarnato dall'Austria-Ungheria e il "grande malato" che era l'Impero Ottomano conosce il collasso definitivo. Il modello dello Stato Nazione si allarga all'Europa intera. Sul Foglio Alessandro Crippa prende spunto da un volume di Insenghi e Pozzato, "I vinti di Vittorio Veneto", per accostare la disfatta di quel modello con la crisi che attraversa oggi l'Unione Europea, che vede le istituzioni di Bruxelles resistere con sempre maggiore fatica alla spinta dei sovranismi. "Giocare con i paralleli storici è sempre azzardato", premette Crippa, scrivendo tuttavia che "c'è qualcosa che suona attuale" in "questa potente élite europea sul punto di implodere per inconsapevolezza". "Se non altro perché a sfuggire di mano è la percezione di nazionalismi che nessun 'sistema di valori' - in quell'occasione quelli delle fedeltà feudali, oggi sono i valori della democrazia e della società aperta - era più in grado di reggere. La certezza di avere ragione si appannava in una disperata nostalgia".
"Dopo l'impero europeo arrivarono Hitler e il Duce"
Il vicedirettore del Foglio parla di "autorispecchiamento": "Si leggono queste memorie, si scorrono documenti in cui lo stato maggiore certifica il contrario di quanto avviene sul campo, e vengono in mente certe battute al vetriolo di Moscovici o certe relazioni brussellesi sulla perfetta tenuta delle istituzioni europee. E, girando ancora lo specchio, viene da pensare alla stoltezza dei tanti nazionalisti che oggi soffiano per far crollare n'altra classe dirigente europea, per quanto farraginosa". Conclusione: "Crollata quella degli Asburgo, non venne la felicità dei popoli. Di là delle Alpi arrivò Hitler, di qua Mussolini".
Un parallelismo che funziona a metà
È comprensibile la tentazione di cedere a questo accostamento, facile ma suggestivo. E il parallelismo funziona finché riguarda lo scollamento dalla realtà di una classe dirigente che ha guardato con sussiego l'avanzata dei cosiddetti "populismi" allo stesso modo nel quale i generali asburgici non potevano credere che la loro perfetta macchina da guerra stesse davvero soccombendo alla riscossa di quegli italiani che giudicavano, con analogo sprezzo, una razza inferiore. Così come regge l'analogia tra la presunzione di invincibilità degli Asburgo e quella di chi ritiene irreversibile l'attuale modello di Europa. La seconda parte del ragionamento sembra però più discutibile. Non tanto e non solo perché affermare che con i sovranismi non può che tornare l'autoritarismo, a furia di ripeterlo, è diventato apodittico. Ma perché, per quanto sia vero che il 4 novembre di un secolo fa segnò la fine degli imperi centrali, non si può certo leggere la Prima Guerra Mondiale come la sconfitta di un modello pluriculturale, se non di "società aperta" ante litteram (c'è chi lo ritiene), contro un nazionalismo il cui esito inevitabile sarebbe poi la dittatura.
A trionfare furono sì i nazionalismi, ma quelli liberali
Tralasciando le ragioni concrete della sconfitta degli imperi centrali (dal blocco commerciale che ne affamò le popolazioni all'intervento degli Stati Uniti d'America che, come sarebbe avvenuto nel secondo conflitto mondiale, ribaltò gli equilibri della guerra), che poco hanno a che fare con la dicotomia suggerita poc'anzi, è impossibile non riflettere come la vittoria dei nazionalismi fu anche e soprattutto la vittoria dei sistemi liberali contro quelli autoritari. Vittoria dei due Stati nazione più antichi d'Europa, la Francia e l'Inghilterra (che, allo stesso tempo, era un impero molto più globale e multiculturale dell'Austria-Ungheria) e di uno giovanissimo, l'Italia, che è figlio di Crispi, non certo di Mussolini, la cui conquista del potere non sarebbe mai avvenuta se i liberali non avessero temuto l'approssimarsi di un altro autoritarismo, quello bolscevico. All'indomani del 4 novembre, prima che si iniziasse a discutere di "vittoria mutilata", non c'era l'ombra del manganello a incombere, bensì la luce del sogno di Gioberti a sfavillare, almeno nella retorica patriottarda che nel centenario della Vittoria ci si può concedere.
Cosa potrebbe replicare un sovranista
Non solo. A venire sconfitto il 4 novembre fu il nazionalismo più arrogante di tutti, perché più giovane e affamato, quello della Germania del Kaiser. Quest'ultimo aveva il titolo di imperatore ma regnava su un popolo il cui nazionalismo era ritenuto ancestrale dai suoi propugnatori, da Fichte a Schlegel. È da questo pensiero, oltre che dalla frustrazione e dalla volontà di riscossa dopo una sconfitta umiliante, che nacque Hitler, il quale riteneva solo rimandata la realizzazione della missione civilizzatrice dell'Urvolk teutonico. Una presunzione di supremazia che molti euroscettici vedono proseguita nella Ue a trazione germanica. Un'esagerazione, certo. Si potrebbe ribattere nondimeno che il parallelo suggerito da Crippa può essere facilmente ribaltato in chiave sovranista.
Sono molti, da quel fronte, a suggerire l'accostamento contrario, quello dell'Unione Europea come Quarto Reich, come nuova affermazione del sogno egemonico di Berlino, le cui regole devono essere giuste per dogma e quindi attagliarsi a ogni altra nazione. Un Salvini, ma anche un Melenchon, potrebbe quindi ironizzare su un Moscovici gauleiter, sugli europeisti acritici come Quisling reincarnati, sul blocco baltico novello Reichskommissariat Ostland, nella sua leale difesa della dottrina dell'austerità. Perché, almeno in Italia, l'onda sovranista non si basa tanto sul rigetto di un modello plurale quanto sull'asserzione, corretta o meno, che a certi Paesi (Francia e Germania in primis) la difesa dell'interesse nazionale viene concessa e ad altre no. Appunto, "giocare con i paralleli storici è sempre azzardato".