Mangiamo quasi 13 miliardi di uova ogni anno, ma ancora non sappiamo esattamente come sono allevate le galline che le producono. Se il 95% delle uova è di provenienza italiana, come attesta UNA Italia, (Unione Italiana delle filiere agroalimentari carni e uova), solo la metà dei consumatori fa una scelta basata sulla tipologia di allevamento di provenienza, a terra o in gabbia, mentre il restante 50% dei consumatori non è invece in grado di specificare la provenienza delle uova acquistate, come conferma l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare, (Ismea).
Eppure le uova sono uno dei pochi prodotti alimentari presenti in tutti i carrelli della spesa e nei frigoriferi degli italiani, esclusi ovviamente quelli dei consumatori vegani e intolleranti.
Dal 2004 la tracciabilità ci dice la provenienza delle uova
Questo nonostante il sistema di tracciabilità, in auge ormai dal 2004, indichi ai consumatori il tipo di allevamento e scadenza delle uova con un codice apposito, che dovremmo aver imparato tutti a leggere. Perché, proprio il primo numero stampigliato sul guscio indica dove è stata allevata la gallina che ha deposto l’uovo:
- “0” indica che l’allevamento è biologico, con spazio all’aperto e massimo 6 galline per mq quando sono al coperto
- “1” indica un allevamento con spazio all’aperto, ma grande circa la metà di quello biologico
- “2” indica che si tratta di un allevamento a terra, ovvero in capannoni al chiuso, ma senza gabbie
- “3” indica, infine, un allevamento in gabbie impilate l’una sull’altra.
Condizioni di allevamento che ovviamente influiscono sulla qualità dell’uovo deposto, come ricorda Altroconsumo.
La maggioranza delle uova non più da allevamenti a batteria (ma ancora intensivi)
Sempre i dati di Ismea nel 2016 ci dicono che le uova di galline allevate a terra (ma al chiuso) rappresentano il 31% delle uova acquistate in Italia, mentre solo il 2% proviene dall’allevamento all’aperto. In pratica oltre il 52% proviene dai moderni allevamenti che pur non essendo più “a batteria”, sono ancora intensivi.
La direttiva UE 1999/74 sul benessere animale, a tutela delle galline ovaiole, ha stabilito che entro il 2012 tutti gli allevatori italiani dovevano eliminare le gabbie di batteria e introdurre le cosiddette “gabbie arricchite”. Gabbie che ospitano normalmente colonie tra le 60 e le 80 galline ciascuna. In queste gabbie ogni gallina ha a disposizione 750 cm2, una superficie poco più grande di un foglio A4.
Un passaggio graduale che è avvenuto, ma come ricordano da CIWF (Compassion in World Farming) - che aveva documentato con una video inchiesta la reale condizione degli animali, “The end the Cage Age” - “le gabbie restano sempre gabbie”.
L'uso degli antibiotici e le possibili ricadute sugli umani
Non è un tema di poco conto. La vita degli animali in cattività peggiora le condizioni di salute e igieniche e la loro convivenza che rendono di fatto indispensabili, ad esempio, l’uso di antibiotici. Uso che negli allevamenti avicoli è molto alto e ha favorito l’aumento dell’antibiotico resistenza animale proprio nei polli, con possibili ricadute sulla salute umana, come Agi ha raccontato, attraverso l'ultimo rapporto curato dall'Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC).
E come già una relazione del ministero della Salute aveva messo in luce: la salute di polli e galline italiane non è proprio florida. Secondo il report del ministero, nei 709 campioni di pollo esaminati
- il 12,69% erano risultati positivi alla presenza di Salmonella spp., una delle cause più frequenti di tossinfezioni alimentari nel mondo industrializzato e in Italia
- il 72,92% positivi alla presenza di Campylobacter spp., la prima causa di zoonosi trasmesse dagli animali all’uomo in Europa
- il 95,40% positivi alla presenza di Escherichia coli (un microrganismo commensale che vive in simbiosi nell’intestino, ma che in particolari condizioni può divenire un patogeno opportunista) e ad alte contaminazioni (81,33%) da Escherichia coli produttori di ESBL/AmpC, batteri che, secondo la relazione ministeriale, “destano preoccupazione per la salute pubblica, sia per la loro capacità di trasmettere i determinanti di resistenza ai principali agenti zoonosici (Salmonella) che per le loro potenzialità di agenti patogeni opportunisti nell’uomo”.
Dati non proprio rassicuranti, tanto che a suo tempo la Federazione Nazionale Ordine dei Veterinari (FNOVI) aveva commentato con preoccupazione: “I risultati rappresentano una situazione alquanto allarmante soprattutto per alcuni antimicrobici quali tetracicline, sulfamidici, aminopenicilline e chinolonici”. E anche un’inchiesta di Altroconsumo, che ha lanciato anche la campagna “Basta antibiotici nel piatto”, aveva riscontrato nel 63% dei campioni di carne prelevati in commercio, la presenza di batteri Escherichia coli resistenti agli antibiotici, che non sono pericolosi di per sé ma certo indice di un sicuro trattamento con antimicrobici.
Contro l’allevamento intensivo e le uova gabbia: la campagna di CIWF
L’Italia è il secondo produttore di uova di gallina in Ue dopo la Germania. Secondo dati del 2015 della Commissione Europea in Italia, alleviamo ogni anno 48.199.175 galline. La maggior parte, 31.945.613, il 66%, sono allevate nelle cosiddette gabbie arricchite. 13.097.046 (il 27%) sono allevate a terra, 1.677.609 (il 4%) sono allevate all’aperto e 1.478.907 (il 3%) in allevamenti biologici. Mentre i sistemi all’aperto prevedono una densità al coperto di 9 animali per mq, in quelli biologici all’interno della struttura è previsto un massimo di 6 animali per mq, le proporzioni cambiano per gli allevamenti in gabbia e al chiuso.
“Altissime densità (fino a 20 polli per mq) nei capannoni, selezione genetica con patologie connesse, ridotte difese immunitarie e conseguente uso di routine di antibiotici producono grandissime sofferenze per gli animali, gravi rischi per la salute umana e una carne più grassa e meno salutare” affermano da CIWF Italia, l’Ong che ha sollecitato tutte le grandi catene di distribuzione alimentare italiane a prendere impegni precisi sui consumatori, per liberare galline e uova dalle gabbie.
I risultati, consultabili a questa pagina, mostrano quali, fra le prime 5 insegne per quote di mercato, già ad oggi oggi non vendono più uova da galline in gabbia, sia a proprio marchio che di altri marchi, e quali abbiano invece un impegno ufficiale per smettere di farlo nei prossimi anni.
Il comportamento dei primi 5 grandi catene di distribuzione in Italia
Coop Italia ha annunciato proprio in questi giorni la campagna “Alleviamo salute” per “ridurre progressivamente l'uso degli antibiotici negli allevamenti e combattere così l'antibiotico resistenza”. Mentre Auchan ed Esselunga hanno già pubblicato il proprio impegno, dopo le pressioni di CIWF, lo scorso primo marzo anche Carrefour Italia ha promesso di non vendere più uova in guscio da galline allevate in gabbia, comprendendo in questa iniziativa sia le uova a proprio marchio, che quelle di altri marchi.
Fanalino di coda è, invece, il gruppo Conad il quale ha annunciato proprio in queste ore, in una nota stampa che “entro la fine del 2017 eliminerà dall’assortimento dei prodotti a proprio marchio le uova provenienti da galline allevate in gabbia”.
“Conad è l’unica fra le prime 5 insegne di supermercati italiani che non ha ancora nessun impegno ufficiale a non vendere più uova da galline in gabbia. Invitiamo i cittadini italiani a scrivere a Conad per chiedere che elimini le uova da galline in gabbia dagli scaffali. È tempo di voltare completamente le spalle a un sistema di allevamento obsoleto che causa grandi sofferenze agli animali", dichiara Annamaria Pisapia, direttrice di CIWF Italia Onlus. Ritardo che si somma anche a quello di Eurospin, Pam e Unes.
Processi di trasformazione della filiera agroalimentare, dalla produzione alla vendita che andranno adeguatamente monitorati dalle ASL e comunicati dalle aziende, in modo da poter verificare gli impegni presi negli anni e garantire la trasparenza nei confronti dei consumatori. Resta poi, sempre, il ruolo attivo del cittadino, che anche in questo caso farà la differenza: la scelta consapevole nel fare la spesa, mai forse come in questo caso, avrà una ricaduta a tutela della salute pubblica umana e animale.
Quali supermercati vendono uova da allevamenti a terra e quali no.
Supermercato | Cage-free a proprio marchio | Cage-free su altri marchi |
Coop Italia | Sì | Sì |
Conad | No | No |
Esselunga | Sì | Sì |
Auchan | Sì | Sì |
Carrefour | Sì | Sì |
Eurospin | No | No |
Gruppo Pam/Panorama | No | No |
Unes | No | No |
Iper | Sì | No |
Crai | Sì | No |
Fonte e rielaborazione dati CIWF Italia per AGI al 03/05/2017
Come leggere il codice di tracciabilità delle uova: fonte Altroconsumo per Agi