Com'è finita la storia della Web Tax?
“L’ultima beffa di questo governo è persino l’insabbiamento della web tax da far pagare ai giganti della rete che vendono in Italia. Noi l’avevamo inserita nell’ultima legge di stabilità, l’esecutivo dovrebbe fare il decreto attuativo ma non ce n’è traccia”. Parole del segretario Pd Maurizio Martina. Le abbiamo verificate, anche grazie ad una lettera dell'ex senatore Mucchetti al Corriere

L’ex senatore del Partito Democratico Massimo Mucchetti ha scritto una lettera al Corriere della Sera, pubblicata il 6 settembre, in cui sostiene che sulla web tax è stato “inadempiente Conte, ma anche il suo predecessore Gentiloni. E meno male”. La lettera fa parte di uno scambio di opinioni polemiche intorno alla questione, che ha visto tra i protagonisti anche l’attuale segretario del Pd Maurizio Martina.
Ecco la ricostruzione di Mucchetti: “La norma ridisegnata dal Pd nel dicembre scorso alla Camera, snaturando quella approvata all’unanimità dal Senato, dimezzava dal 6 al 3% l’aliquota sui ricavi delle società web e poi cancellava il credito d’imposta compensabile con Ires, Irap, contributi previdenziali e ritenute fiscali che (…) avrebbe salvato le imprese (…) con vere basi operative in Italia e colpito Google, Facebook e compagnia eludente”.
Vediamo meglio qual è la situazione.
L’accusa di Martina a Conte
Quella di Mucchetti è una risposta a quanto affermato dal segretario del Pd Martina, in un’intervista al Corriere della Sera del 5 settembre.
Qui Martina aveva affermato: “L’ultima beffa di questo governo è persino l’insabbiamento della web tax da far pagare ai giganti della rete che vendono in Italia. Noi l’avevamo inserita nell’ultima legge di stabilità, l’esecutivo dovrebbe fare il decreto attuativo ma non ce n’è traccia”.
Secondo Mucchetti, le responsabilità sono per lo meno da dividere tra l’attuale governo e il precedente - e il fatto che la web tax non sia passata nella forma voluta dall’esecutivo Gentiloni sarebbe un bene.
La legge di stabilità per il 2018
Approvata a fine 2017, la Legge di stabilità per il 2018 (l. 205/2017) parlava in effetti dell’istituzione di una nuova tassa “sulle transazioni digitali”. Recitava infatti, all’articolo 1 comma 1011: “È istituita l'imposta sulle transazioni digitali, relative a prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici rese nei confronti di soggetti residenti nel territorio dello Stato (…) nonché delle stabili organizzazioni di soggetti non residenti situate nel medesimo territorio”.
I commi successivi stabilivano che le modalità precise di applicazione dell’imposta sarebbero state stabilite con un decreto del ministro dell’Economia. Questo decreto, stabiliva il comma 1012, sarebbe dovuto essere emanato entro il 30 aprile 2018 e avere valore dal primo gennaio 2018.
Al 30 aprile, il governo Conte ancora non era in carica, essendosi insediato il primo giugno 2018. Dunque la responsabilità cade anche sull’esecutivo Gentiloni, che tra dicembre 2017 e aprile 2018 non ha emanato il decreto del Mef necessario. Il termine del 30 aprile, comunque, non era tassativo (si parla in questi casi di termine “ordinatorio” ma non “perentorio”), e il governo successivo - quello Conte, appunto - avrebbe potuto emanare il decreto anche dopo.
L’aliquota
Mucchetti ha dichiarato che la versione “ridisegnata dal Pd” alla Camera a fine 2017 aveva abbassato dal 6 per cento al 3 per cento l’entità della tassa per le società web.
Vediamo come la legge che introduceva la web tax stabiliva l’ammontare dell’imposta. Il comma 1013 dell’articolo 1 della Legge di stabilità per il 2018 specificava che “l’imposta di cui al comma 1011 si applica con l’aliquota del 3 per cento sul valore della singola transazione. Per valore della transazione si intende il corrispettivo dovuto per le prestazioni di cui al comma 1012, al netto dell’imposta sul valore aggiunto, indipendentemente dal luogo di conclusione della transazione”.
Ma, nella sua versione precedente approvata dal Senato, l’aliquota era in effetti diversa. Mucchetti lo sa bene, essendo il primo firmatario dell’emendamento 88.0.1 (testo 3), accolto durante l’esame della legge di stabilità in Commissione: esso introduceva l’articolo 88 bis sulla web tax e al comma 11 stabiliva: “L’imposta si applica con l’aliquota del 6 per cento sull’ammontare dei corrispettivi relativi alle prestazioni di servizi di cui al comma 9”.
Queste prestazioni di servizi sono, in base appunto al comma 9, quelle “effettuate tramite mezzi elettronici”.
Il credito di imposta
E veniamo alla parte più complessa del ragionamento di Mucchetti, quella secondo cui la web tax nella sua ultima versione avrebbe di fatto danneggiato le imprese con una vera base operativa in Italia.
L’articolo 88 bis, nella versione introdotta al Senato dall’emendamento a prima firma Mucchetti, prevedeva (al comma 14) che “ai soggetti che effettuano le prestazioni di servizi di cui al comma 9 spetta un credito di imposta pari all'imposta di cui al comma 11 utilizzabile ai fini dei versamenti delle imposte sui redditi”.
In questo modo, venivano avvantaggiate di fatto le imprese che versano imposte sui redditi in Italia, che dunque possono sterilizzare l’imposta del 6% mettendo a credito nei confronti dello Stato l’equivalente di quanto versato.
Le imprese che invece non versano imposte sui redditi in Italia non avrebbero invece avuto modo di sfruttare il credito. “Questa formulazione - spiegava a novembre 2017 lo stesso Mucchetti - protegge in modo totale le imprese italiane”.
Invece, la versione approvata alla Camera dopo l’approvazione degli emendamenti presentati dal presidente della commissione Bilancio Francesco Boccia (Pd), e poi diventata definitiva col successivo voto di fiducia del Senato, non prevede alcun credito di imposta.
Boccia, infatti, aveva parlato di “pasticcio” riferendosi a quanto stabilito dal Senato dove, aveva sostenuto, “la questione dell’imposta sulle transazioni è stata affrontata malissimo”.
La sua intenzione era infatti di “far pagare alle multinazionali le stesse tasse che pagano le imprese italiane, non tassare in più solo alcune transazioni salvando poi altre, come il business to consumer e il commercio”, concentrandosi gli sforzi in particolare sull’allargare il concetto di “stabile organizzazione”.
“Se ci si concentrasse sulla richiesta di avere residenza in Italia alle imprese che operano nel nostro Paese”, affermava Boccia, “le tasse sarebbero uguali per tutti e non si dovrebbe nemmeno parlare di imposta sulle transazioni”.
Le critiche
La soluzione definitiva adottata dalla legge di bilancio per il 2018 ha suscitato tuttavia molte critiche. Hanno espresso un parere contrario, ad esempio, Il presidente di Confindustria Digitale, Elio Catania, e Corrado Sciolla, ex presidente di BT per l’Europa e attuale board member di ItaliaOnLine.
Ma non solo. Secondo un approfondimento dello studio legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners la web tax per come prevista dalla Legge di stabilità per il 2018 presenterebbe problemi per quanto riguarda il rischio di contrasto sia con la normativa comunitaria, sia coi principi costituzionali.
La web tax a livello europeo
Forse a causa delle difficoltà emerse, l’Italia non ha provveduto – né col governo Gentiloni, né col governo Conte – a dare attuazione alla disciplina prevista nella Legge di stabilità per il 2018 con il necessario decreto ministeriale.
Un’altra possibile ragione per lo stallo legislativo è che di web tax si discuteva in quello stesso periodo a livello comunitario, tanto che la Commissione ha presentato una sua proposta in materia a marzo 2018 (suscitando tuttavia l’immediata opposizione di alcuni Paesi).
Attualmente l’intenzione della Commissione, espressa ancora a fine luglio dal commissario per gli Affari economici Pierre Moscovici, è di approvare comunque entro fine anno un regime provvisorio sulla web tax a livello comunitario. Nel caso di opposizione di alcuni Paesi europei il precedente governo aveva ipotizzato di procedere comunque, sfruttando lo strumento delle cooperazioni rafforzate, che permetterebbe di aggirare il veto dei contrari.
L’attuale esecutivo, per bocca del ministro dell’Economia Giovanni Tria, ha confermato – insieme al governo francese – “L’impegno per l’adozione in tempi brevi della proposta della Commissione europea sulla tassazione dei servizi digitali a partire dalla fine del 2018”.
Conclusione
Non abbiamo la pretesa di stabilire se la soluzione di Mucchetti fosse migliore o peggiore di quella immaginata da Boccia, e se avrebbe poi causato più o meno problemi di quelli sollevati dalla versione definitiva del provvedimento.
Ma Mucchetti ha ragione nell’attribuire tanto al governo Gentiloni quanto al governo Conte l’intenzione di non attuare le norme sulla web tax contenute nella legge di stabilità per il 2018, forse in attesa di una decisione a livello europeo sulla materia.
È poi vero che l’aliquota sia passata dal 6% al 3% nel passaggio tra Senato e Camera, prima dell’approvazione definitiva, del testo normativo. Allo stesso modo è vero che il credito di imposta, previsto dagli emendamenti approvati al Senato, fosse stato cancellato alla Camera. In conseguenza di quella cancellazione, è vero che le imprese che pagano le tasse sul reddito in Italia non avrebbero potuto compensare il costo della web tax, al pari di quelle che non pagano tasse sul reddito in Italia.
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