Alla presentazione del rapporto Agi-Censis “La cultura dell’innovazione”, lo scorso 18 dicembre a Montecitorio, la presidente della Camera Laura Boldrini ha dichiarato: “I grandi giganti della rete (…) ancora oggi non pagano le tasse laddove fanno proventi. L’ufficio parlamentare del bilancio ha fatto uno studio qui alla Camera in base al quale si evince che questi colossi digitali sottrarrebbero tra i 30 e i 32 miliardi di euro dalla base imponibile, questo vuol dire che causano tra i 5 e i 6 miliardi di minori entrate per lo Stato”.
Si tratta di un’affermazione corretta.
Dove pagano le tasse i colossi del web?
Boldrini ha ragione in primo luogo nel sostenere che i giganti della rete non paghino le tasse, se non in minima parte, dove fanno i proventi. In base al diritto internazionale – in particolare agli articoli 5 e 7 del modello di convenzione Ocse, ripreso in Italia dal DPR 917/1986 – i profitti di un’azienda sono tassati nello Stato di residenza, a meno che in altri Stati non siano presente una “stabile organizzazione” dell’azienda stessa.
Questa espressione comprende, in base all’articolo 5 della convenzione Ocse e all’art. 162 del DPR 917/1986, una sede di direzione, una succursale, un ufficio, un’officina, un laboratorio, una miniera, una cava, un cantiere e via dicendo. Si tratta di un criterio che lega insomma la tassabilità a una presenza fisica dell’azienda in un certo Stato.
Con riguardo alle grandi aziende del web questo criterio ovviamente crea dei problemi, come dimostra anche il dibattito a livello europeo per arrivare a una “web tax”. I colossi di internet sono infatti in grado di generare ingenti profitti – tramite la pubblicità online e non solo – in Stati dove non hanno nessuna presenza fisica o quasi, e di scegliere tra i vari Stati europei quelli con il regime fiscale più favorevole (es. Irlanda, Lussemburgo e Olanda).
In tempi recenti Google ha riconosciuto di avere una “stabile presenza” in Italia e ha risolto il contenzioso che aveva aperto con la magistratura, e anche Facebook ha annunciato di voler pagare più tasse nei vari Paesi dove produce ricavi, ma ad oggi rappresentano un’eccezione rispetto al resto delle multinazionali del web.
Sull’IVA, che come vedremo genera la fetta più consistente dei mancati proventi per lo Stato, la questione è più complessa perché norme adeguate in teoria già ci sarebbero e i comportamenti evasivi non hanno riguardato tanto le grandi aziende quanto la grande massa del commercio online.
I mancati proventi per l’Italia
La presidente della Camera cita correttamente i dati stimati dalla commissione Bilancio della Camera, come riportati da numerose fonti di stampa e sostanzialmente riconfermati anche dal presidente della commissione Francesco Boccia, in un’intervista al Manifesto (dove pure si registra una leggera discrepanza).
Boccia afferma infatti: “Secondo le nostre stime, l’imponibile complessivo eroso [dalle multinazionali del web] è pari a circa 32 miliardi di euro (…). Se rendessimo strutturale la tassazione, ci ritroveremmo in cassa intorno ai 4-5 miliardi”.
(Non siamo in grado di risolvere la discrepanza tra “5-6” miliardi e “4-5” miliardi perché, come ci comunicano da Montecitorio, i documenti ufficiali contenenti le stime non sono pubblici. In ogni caso trattandosi appunto di stime non si tratta di una differenza significativa).
Come a noi precisato successivamente dalla presidenza della Camera, questa stima di 5 miliardi circa è riferita a tutte le imposte non pagate in Italia (soprattutto l'IVA) da queste multinazionali, attraverso pratiche fiscali elusive o comunque inique, per le transazioni online, compreso l'e-commerce.
Conclusione
La presidente della Camera ha ragione nell’individuare il problema della mancata tassazione dei colossi del web nei Paesi in cui fanno proventi ma non hanno legalmente una “stabile presenza”. Il dibattito sul tema interessa tanto l’Italia quanto l’Europa.
Boldrini riporta poi correttamente le stime fatte dalla commissione Bilancio e riferite esplicitamente anche dal suo presidente, Francesco Boccia.
Se avete delle frasi o dei discorsi che volete sottoporre al nostro fact-checking, scrivete a dir@agi.it