Che impatto ha il fact-checking e, in concreto, a cosa serve? Notizie “avvelenate” che non muoiono mai, politici che ripetono decine di volte affermazioni che sono già state dimostrate false, credenze diffuse impossibili da sradicare... Tutti fenomeni che potrebbero togliere fiducia ai processi di verifica dei fatti. Nel secondo giorno del Global Fact 4 in corso a Madrid, alcuni accademici – Thomas Wood della Ohio State University, Emeric Henry di Science Po (Parigi), Briony Swire-Thompson della University of Western Australia e del MIT – hanno mostrato che cosa emerge dalle loro ricerche.
Un primo risultato su cui sembra esserci un consenso è che le persone non cambiano la loro idea su un partito o un politico, o più in generale la loro visione di un determinato tema, in base al fact-checking. E dunque, qual è il suo compito? Lo abbiamo chiesto a Thomas Wood.
Per cominciare, è importante riconoscere a ogni persona la dignità delle sue convinzioni generali, e limitare la portata del fact-checking a un determinato fatto. In questo modo è possibile rettificare alcuni errori che sono alla base di determinate convinzioni – che possono comunque rimanere", dice Wood.
"Ad esempio, sui cambiamenti climatici è perfettamente legittimo avere un’opinione “conservatrice” che non vuole venga limitata la produzione industriale nel proprio Paese, magari facendo leva sulla possibilità per gli Stati di comprare/vendere quote di inquinamento tra di loro. Ma, senza mettere in discussione opinioni generali del genere, è possibile convincere le persone tramite il fact-checking della evidenza scientifica del surriscaldamento globale".
Bisogna evitare, insomma, il rischio di far sentire i lettori “insultati”. Un errore in cui spesso si rischia di incorrere con uno stile troppo asciutto, specie nelle conclusioni, o adottando un atteggiamento oppositivo e non di confronto.
Cosa ha insegnato l'esperienza di Trump
Ma ci sono anche segnali più confortanti. "Spesso – prosegue Wood – le persone sono disposte a credere ai fact-checker se questi gli spiegano argomenti di cui magari sanno molto poco. Nei nostri studi, abbiamo riscontrato che i fact-checker godono di una buona credibilità. In questo senso aiuta sicuramente occuparsi di tutte le parti politiche, anche a costo di dedicare la stessa attenzione a un politico che è stato verificato menta molto spesso e ad altri ‘normalmente’ imprecisi".
Uno sbaglio, questo, che ad esempio è stato commesso durante la campagna elettorale negli Stati Uniti. La sensazione, testimoniata da numerosi commenti, di un accanimento nei confronti di Donald Trump ha spesso dato forza alle accuse di quest’ultimo ai fact-checkers di essere politicamente orientati.
"Abbiamo condotto un esperimento da cui risulta che il fact-checking ha un impatto sulla percezione delle persone di un determinato problema», spiega Emeric Henry, dell’università Science Po di Parigi. "Abbiamo fatto leggere un’affermazione di Marine Le Pen, detta durante la campagna elettorale e contenente un dato sbagliato sulla percentuale dei maschi tra i migranti arrivati in Europa (99%), a un gruppo di persone. Abbiamo mostrato solo il dato corretto (58%) a un altro gruppo, e il confronto tra i due a un terzo gruppo".
La scelta del tema si è dimostrata cruciale, più della verifica dei fatti in sé. "Risulta che anche solo parlare del tema [dell’immigrazione], concentrandosi sul numero, ha innalzato le simpatie per Marine Le Pen rispetto al quarto gruppo, di controllo, a cui non è stato fatto leggere nulla".
"Adesso vorremmo andare oltre. Vorremmo cioè verificare che se invece di concentrarsi sul numero sbagliato citato da Le Pen, il fact-checking avesse preso di mira la conseguenza che ne veniva fatta derivare, cioè che si tratta di migranti economici che una volta arrivati in Europa non se ne sarebbero più andati, avrebbe avuto altrettanto impatto. Probabilmente oltretutto nella direzione opposta, cioè di alienare a Marine Le Pen le simpatie di chi apprende questa informazione".
In attesa di ulteriori studi, quello che emerge dall’incontro di Madrid è che il fact-checking abbia comunque un impatto sulle persone, anche se non è in grado di cambiarne le opinioni generali.
Nessuna prova che l'effetto "backfire" esista
Sul rischio che possa avere un effetto negativo, a fronte dei risultati dello studio di Henry che tocca un tema delicato come l’immigrazione, possiamo rassicurarci con un risultato dello studio del professor Wood: non c’è alcuna evidenza scientifica del fenomeno del “backfire”, e cioè che le persone si irrigidiscano nelle loro convinzioni errate anche di fronte alla dimostrazione che, appunto, non hanno fondamento reale.
Un timore che era nato soprattutto dopo uno studio del 2010 di Brendan Nyhan e Jason Reifler. I due studiosi sostenevano che, dopo aver letto articoli che smentivano l’accusa all’Iraq di Saddam Hussein di nascondere armi di distruzione di massa, le persone che già avevano questa convinzione diventassero ancora più persuase di questa bugia.
Un “backfire effect”, appunto: un concetto che ha avuto molta fortuna, anche se gli stessi autori della ricerca del 2010 hanno annunciato pochi mesi fa di aver svolto nuove ricerche che sostenevano l’efficacia del fact-checking.
Se avete delle frasi o dei discorsi che volete sottoporre al nostro fact-checking, scrivete a dir@agi.it