Duro scontro tra due ex presidenti del Consiglio del Partito Democratico, con Letta che accusa Renzi di aver utilizzato male la flessibilità concessa dalla Ue e il secondo che risponde, indirettamente, al primo rivendicando: “L’Europa non ci ha dato la flessibilità. Ce la siamo presa”. Ma vediamo nel dettaglio cos’è successo e chi ha ragione.
Lo scontro, per prima cosa. Enrico Letta ha sostenuto lo scorso 26 marzo: “La linea dell'austerity ha caratterizzato l’Europa dal 2008 fino al 2014, ma dal 2014, da quando è arrivato Juncker e con la politica espansionista di Draghi, l’Italia ha avuto margini di flessibilità molto larghi e la politica di Draghi ci ha consentito di risparmiare 33 miliardi sul costo del debito”. E ancora: “la flessibilità è stata usata male”.
Nella sua eNews del 27 marzo, Matteo Renzi ha scritto che la flessibilità è stata, appunto, “presa, combattendo una durissima battaglia politica nel nostro semestre di presidenza, nel 2014. Al termine del quale abbiamo detto che non avremmo votato Juncker se non ci fosse stato un esplicito riferimento alla flessibilità. Cosa che è avvenuta perché senza il PD col 40% non si chiudeva l’accordo in Europa. Non ci hanno regalato nulla, abbiamo fatto politica e abbiamo vinto una battaglia grazie ai voti presi dagli italiani”.
Juncker ha introdotto la flessibilità. Ma lo ha eletto il Pd?
I due ex presidenti del Consiglio sembrano quindi concordi nell’attribuire a Juncker l’introduzione della flessibilità. Ma Renzi, a differenza di Letta, rivendica per il suo governo il risultato di aver costretto Juncker a una simile condotta.
Vediamo cos’è successo di preciso nel percorso verso l’elezione di Juncker, per prima cosa: il Pd è stato davvero determinante? All’indomani delle elezioni europee del maggio 2014, il Pd prese il 40,8% dei voti e mandò a Bruxelles ben 31 europarlamentari, la delegazione più numerosa all’interno del Partito Socialista Europeo (Pse) e anche in assoluto, se si considerano distintamente i 29 della Cdu i 5 della Csu tedesche (che aderiscono invece al Ppe, il Partito Popolare Europeo).
Jean-Claude Juncker è stato eletto, il 15 luglio seguente, Presidente della Commissione europea con 422 voti, quando gliene servivano 367. Dunque anche senza i voti del Partito Democratico avrebbe potuto ambire alla presidenza, ma non va sottovalutato il peso del Pd all’interno del Pse e la conseguente capacità di condizionamento. Insomma, è plausibile che il Pd abbia fatto sentire la sua voce nella scelta.
L’elezione di Juncker è infatti figlia del compromesso trovato tra
- Ppe (221 membri),
- Alde (67) e
- Pse (191).
I socialisti si sono quindi accaparrati i posti “pesanti” di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza – con l’italiana Mogherini – di commissario per gli affari economici e monetari – col francese Moscovici – e di presidente dell’Eurogruppo – con l’olandese Dijsselbloem.
La flessibilità, in realtà, esisteva anche prima
Sarebbe tuttavia errato ritenere che il Pse sia stato portato su una linea contraria all’austerità e favorevole alla flessibilità dalla persuasione del governo italiano solo all’indomani delle elezioni europee. Le prime voci critiche risalgono a prima. Già a marzo 2014, quando il Pse aveva individuato il proprio candidato nel tedesco Martin Schulz, dai socialisti europei erano state avanzate critiche nei confronti dei dogmi dell’austerità seguiti finora e proposte di una maggior flessibilità.
E infatti, tra i Paesi europei, quelli che hanno sostenuto di più le richieste di maggiori margini per la politica economica dell’Italia sono stati quelli a guida socialista, come la Francia, il Portogallo, la Grecia e altri Stati del Sud Europa.
Aver guadagnato un maggiore spazio per la flessibilità in Europa, accanto alla stabilità, è dunque il risultato di una mediazione tra istanze di vari Paesi, vari partiti politici e varie istituzioni europee. Lo stesso Juncker aveva in passato rivendicato per sè questo risultato.
Le concessioni ottenute dal semestre italiano però sono limitate
Il semestre italiano è iniziato il 1 luglio 2014 ed è finito il 31 dicembre dello stesso anno. Il risultato concreto che gli osservatori riconoscono all’Italia è rappresentato dalla dichiarazione della Commissione del 13 gennaio 2015, a semestre italiano appena concluso.
In tale dichiarazione la Commissione, come rivendica Renzi, fa espressamente riferimento al concetto di “flessibilità”. Nel dettaglio, si concede che non vengano usati ai fini del calcolo del debito e del deficit i contributi nazionali al fondo Feis per gli investimenti strategici, così come non contribuiranno all’apertura di procedure per deficit eccessivo o per squilibri macro-economici le spese di co-finanziamento nazionale dei programmi pagati dai fondi strutturali europei. Ancora, via dallo stesso calcolo le spese nazionali per le opere infrastrutturali previste dai programmi europei per le grandi reti (trasporti, telecomunicazioni ed energia) e il fondo che li finanzia (Cef).
Queste concessioni hanno tuttavia durata e portata limitata. Lo scostamento dai parametri europei non può eccedere al massimo lo 0,5% del Pil e gli obiettivi di medio termine devono comunque essere rispettati entro quattro anni. Non possono poi accedere a tali agevolazioni i Paesi sotto controllo “correttivo” (Francia, Spagna e Portogallo) mentre possono quelli sotto controllo “preventivo” (15 tra cui Italia, Germania e Olanda) da parte della Commissione.
La flessibilità è esaurita?
Arriviamo dunque al problema attuale, cui fa riferimento l’ex presidente Letta, della correzione ai conti pubblici che ha chiesto l’Unione Europea all’Italia. Il governo Renzi ha a lungo preteso nel corso del 2016, dopo la flessibilità sui conti ottenuta per il 2015/2016, un ulteriore margine di manovra per gli anni seguenti, giustificando la propria richiesta con l’emergenza terremoto e l’emergenza migranti.
Al vertice di Bratislava di settembre 2016 le richieste italiane furono in buona parte respinte, con la motivazione che le spese emergenziali erano già state considerate estranee ai limiti del Bilancio e che all’Italia era già stata concessa più flessibilità che a chiunque altro.
Il tetto al rapporto deficit/Pil per l’Italia fu allora fissato al 2,2%. Secondo la Commissione l’ultima manovra del governo Renzi, prima delle dimissioni seguite alla bocciatura del referendum costituzionale, porta tale rapporto al 2,4% ed è quindi necessaria una correzione dello 0,2%. I famosi 3,4 miliardi che il ministro Padoan sta ora cercando di recuperare senza aumentare le tasse.
Se dovesse fallire per l’Italia si aprirebbe la prospettiva di una procedura di infrazione. I margini di flessibilità concessi a Roma, ampi secondo la Commissione, sarebbero infatti al momento già sfruttati al massimo. Ottenere altri strappi alle regole comunitarie non dovrebbe, in teoria, essere più possibile.
Renzi quindi ha ragione, ma Letta non ha tutti i torti a criticarlo
Renzi ha ragione quando rivendica lo sforzo in sede europea da parte del governo italiano per ottenere maggiori margini di flessibilità. Questo sforzo ha portato alcuni risultati concreti. Pecca però di egoismo quando non menziona tutte le sponde – dal Pse nell’Europarlamento e nella Commissione, agli altri Stati europei contrari ai dogmi dell’austerità – su cui si è costruita la controproposta dei fautori della flessibilità. Sembra poi sottostimare anche il ruolo dello stesso Juncker nel raggiungere un compromesso coi partiti e coi Paesi fautori del rigore finanziario.
Più difficile valutare l’affermazione di Letta secondo cui la flessibilità, concesso o ottenuta che sia, è stata utilizzata male dal governo Renzi. Sicuramente l’Italia si trova adesso in una situazione economica più stabile, con il Pil tornato al segno positivo, rispetto agli anni della crisi dell’euro. Il fatto che, nonostante questo e nonostante i nuovi margini di flessibilità al rigore europeo, il Paese rischi una deleteria procedura di infrazione espone l’ultima legge di Bilancio del passato governo alle critiche.