di Nicola Graziani
Roma - Opposti estremismi che si toccano, il diavolo che non rifugge l'acqua santa oppure, più biblicamente, il leone che dorme con l'agnello: tradotto in politica si dice "accordo". Niente di più naturale, se si pensa che la politica in fondo è l'arte del possibile mitigata nel compromesso. Ugualmente niente di più naturale che questo avvenga nella più potente democrazia del mondo, dove impera il motto "Be wise, compromise". Non suoni pertanto insultante che, da parte di Hillary Clinton, si possa pensare a un ticket presidenziale insieme al socialista Bernie Sanders, e che questi possa prendere in considerazione l'opportunità. Precedenti non mancano, e spesso sono precedenti vincenti, anche perchè non di semplici escamotage per salvare la giornata si tratta, ma di sane intese tra varie anime dello stesso partito. Politica autentica, in altre parole, che si concretizza facendo la sintesi tra le correnti (sì, le correnti) di una compagine.
In principio fu Franklin Delano Roosevelt all'apice della popolarità: 1944, la guerra sta per essere vinta e lui corre per il terzo mandato. Una passeggiata, secondo i bookmaker. Ma lui sa bene che, anche se Hitler e Mussolini sono in rotta, la politica è sempre un fatto locale. Agli occhi di troppi Roosevelt resta un uomo delle upper classes del New England, e per di più percepito in vaste aree del paese come eccessivamente spostato a sinistra. Si sceglie allora come candidato alla vicepresidenza Harry Truman: nativo del Missouri e talmente middle class da non essere mai stato nemmeno al college. Un moderato. Riconferma a valanga. Sulla scorta dell'entusiasmo della vittoria nella Guerra l'America sceglie più tardi per la Casa Bianca il generale Dwight Eisenhower, che è perfetto sotto ogni punto di vista tranne uno: non è un accanito repubblicano. Anzi, ha soppesato a lungo l'idea di presentarsi per i democratici. Allora, quando i repubblicani riescono a convincerlo a scegliere il Grand Olp Party, si trovano davanti al problema di accontentare l'ala dura e pura del partito. Gli sguardi si appuntano su un promettente senatore messosi in luce ai tempi della caccia alle streghe comuniste; si chiama Richard Nixon. Nixon fa il suo lavoro, e quando Nikita Khruscev cerca di convincerlo della superiorità del sistema comunista di fronte ad una cucina componibile americana messa in mostra a Mosca, dimostra di avere grinta e dialettica. Ottiene la nomination nel 1960, ma sente (il fiuto politico non gli manca) di aver bisogno di un vice che rassicuri i moderati, perchè sono loro a fare la differenza nelle urne. Prende come aspirante vice Nelson Rockefeller, che tra l'altro è anche governatore dello stato di New York. Il ticker pertanto è ben equilibrato anche dal punto di vista geografico: Nixon è californiano. Non basta, però, perchè vince l'accoppiata John Kennedy-Lyndon Johnson: il primo è esponente del più puro New England liberal, il secondo è texano e rassicura il Sud conservatore. In campagna elettorale i due se le sono date di santa ragione, ma sanno bene che compromesso in inglese fa rima con saggezza (in italiano con successo).
Forte dell'esperienza, Nixon vince le elezioni del 1968 moderando i toni (e in effetti ci sono fior di storici liberal che lo considerano un presidente non di destra) e prendendosi come vice Spiro Agnew: del Nord Est, moderato e con un occhio alle minoranze (era greco). Non finirà bene: Agnew verrà travolto da una storiaccia di mazzette nel 1973, Nixon dal Watergate nel 1974, ma la formula aveva funzionato benissimo ancora nel 1972. Ronald Reagan, quando ottiene la nomination del 1980, lo fa alla fine di una convention molto combattuta. è in effetto l'inizio di una rivoluzione liberista combattuta a colpi di deregulation, ma lui è ancora percepito come troppo sbilanciato sui valori della conservazione per incantare l'elettorato. Ecco allora che l'uomo che viene dal profondo Midwest si lega a quanto di più poshy, snobbish, preppy ci possa essere nella politica americana. Il rampollo di una dinastia di petrolieri texani che ha studiato a Yale. Si chiama George Bush. Ha guidato la Cia, ha fatto l'ambasciatore a Pechino. L'establishment fatto persona. Walter Mondale detto Fritz, il candidato democratico, non ha chanche. Nel 1984 la situazione si capovolge, perchè Bush osa quello che non accadeva dai tempi di Van Buren (1832): venire eletto essendo il vicepresidente uscente. Ma, per l'appunto, è lui ora ad avere bisogno di un vice che lo copra presso l'America profonda e l'ala destra del partito. Trova il compagno di strada in Dan Quayle. Non un genio, ma risulta utile allo scopo. E' vero, non sempre è così: Bill Clinton e Al Gore sembrano alle volte più due gemelli diversi che non due elementi che si contemperano, e dopo il 2001 le presidenziali sono segnate da avvenimenti epocali come l'11 Settembre e la crisi del 2008, che hanno stravolto le vecchie regole. Oggi, in qualche modo, si potrebbe tornare però alla normalità. Che è fatta di sani, sereni, costruttivi compromessi. Be wise. (AGI)