Perché l’economia americana non è forte come sembra

Il tweet dalla Casa Bianca è chiaro. “POSTI DI LAVORO!!!” annuncia Donald Trump, che fin dal primo secondo del suo mandato aveva chiesto e promesso un’America che comprava americano e assumeva americano. Come fare a dargli torto? Questa settimana la disoccupazione ha registrato un tasso che mai così basso era stato dal dicembre 1969.

A quei tempi l’economia tirava grazie anche alla Guerra in Vietnam, ma nasceva l’inflazione che per il decennio successivo avrebbe afflitto Usa ed Europa. Questa volta non c’è nemmeno l’inflazione: 1,2 percento, addirittura qualche decimale meno del previsto.

Il tasso di crescita, poi, è del 3,2 percento. La nostra, per intenderci, è dello 0,2, e qualcuno stappa lo champagne.

Se continua così, addio sogni di Joe Biden o Bernie Sanders: alla Casa Bianca nel 2020 sarà rieletto Donald Trump. I Democratici si mettano l’anima in pace.

Oppure no?

In politica una settimana è un’eternità, diceva Harold Wilson. In economia un trimestre può voler dire moltissimo. Non dare niente per scontato, allora: nel medio come nel lungo periodo.

Intanto, l’inflazione: anemica come piace a Mike Pence, il vice di Trump, che alla Cnbc parla a riguardo di una economia che ruggisce”. Avrebbe dovuto riconoscere, a proposito, che i dati di oggi sono tali anche grazie alla decisione della Federal Reserve (poco apprezzata dalla Casa Bianca) di mantenersi cauta con i tassi d’interesse.

Del resto la crescita oltre il 3 percento ha una radice ben profonda in scelte che dell’iperliberismo trumpiano hanno poco a che fare. Molto è dovuto infatti ad un vero e proprio balzo in avanti della spesa pubblica, cui sono affiancati gli aumenti delle scorte dei magazzini ed il saldo netto del commercio.

Ma questi ultimi due punti difficilmente manterranno a lungo la loro capacità di incidere positivamente sulla crescita americana: il commercio mondiale è, in questa fase, sostanzialmente debole, e pertanto difficilmente aiuterà come ha appena fatto la bilancia americana.

In Giappone ci si aspetta una nuova recessione, in Brasile la bassa inflazione si accompagna alla bassa crescita.

Quanto alle scorte, in passato si sono rivelate essere ottimi stimolatori ma per un periodo limitato. Se non aumenteranno le vendite, all’interno come all’esterno, è difficile che i magazzini saranno destinati a svuotarsi per essere riempiti a lungo.

A chi dare la colpa?

Più indicativi, piuttosto, i dati sui consumi personali e gli investimenti. Si tratta dei fondamentali di ogni domanda interna, ed in entrambi i casi le cose non sono andate bene. Anche per questo l’inflazione è così bassa, ma non si tratta di un bel segnale. Se si bloccano consumi e investimenti e di conseguenza la domanda interna, si blocca tutto il resto. Insomma, più che un sano equilibrio dell’economia, l’inflazione così bassa è sintomo di un suo raffreddamento.

C’è, infine, da considerare una serie di dati di lungo periodo.

L’aumento della spesa pubblica e dei tagli di imposte finora hanno permesso di prendere parecchio respiro, ma ora il debito pubblico è quasi al 110 percento (era la metà ai tempi di Bush figlio) e questo potrebbe impedire la crescita negli anni futuri. In più l’invecchiamento della popolazione americana (che in questo sta tirando ad assomigliare a quella europea) vuol dire: più spesa pubblica – sanitaria – e minori entrate fiscali. Non è una bella prospettiva.

Al momento Trump si concentra sulla sua rielezione il prossimo anno. Il gioco pare funzionare. E poi, se le cose dovessero mettersi male, ecco pronto il capro espiatorio: la Federal Reserve, che non ritocca i tassi e, sulla carta, blocca l’ulteriore crescita.

Ma i conti con l’eredità di Trump, quelli veri, potrebbero essere rinviati non alla prossima presidenza, ma alla prossima generazione.