Nel giorno della scadenza del precedente 'travel ban', che - per ragioni di sicurezza - aveva sospeso l'ingresso negli Stati Uniti dei cittadini di sei Paesi a maggioranza musulmana (Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen), Donald Trump ha emesso un nuovo decreto che ha allargato le restrizioni a chi proviene da Ciad, Corea del Nord e, nel caso di alcuni funzionari governativi e dei loro familiari, Venezuela. Questa volta non si può parlare quindi di 'muslim ban', come erano stati battezzati il controverso provvedimento dello scorso 27 gennaio e quello successivo del 6 marzo, che aveva rimosso il blocco per gli iracheni previsto dal predecessore. Ed è solo uno dei motivi per i quali il nuovo testo potrebbe avere meno chance di essere bollato come incostituzionale dalla Corte Suprema, come hanno spiegato a Reuters alcuni esperti legali.
La Corte Suprema prossima a pronunciarsi
Il prossimo 10 ottobre, la massima autorità giudiziaria statunitense inizierà l'esame del ricorso delle associazioni umanitarie nei confronti del precedente ordine esecutivo. Non per quanto riguarda il vecchio 'travel ban', che è appunto scaduto il 24 settembre ed è stato rimpiazzato dal decreto odierno, ma a proposito del cosiddetto 'refugee ban', ovvero quella parte del testo che sospende il Refugee Admissions Program (USRAP), il programma che coordina l’ingresso dei rifugiati negli Stati Uniti, e limita il numero dei rifugiati ammessi nel Paese. Unica eccezione, coloro che possono essere inclusi nella categoria di “minoranze religiose perseguitate”. Il nuovo 'travel ban', invece, sembra preparato in maniera tale da poter reggere più facilmente a eventuali nuovi ricorsi (le Procure Generali di Hawaii, New York e California hanno già fatto sapere di aver avviato un esame del provvedimento.
Making America Safe is my number one priority. We will not admit those into our country we cannot safely vet.https://t.co/KJ886okyfC
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 24 settembre 2017
Sudan via dalla lista nera. Deroghe per iraniani e somali
In primo luogo, come si è detto, l'allargamento delle restrizioni a due nazioni non musulmane la fa apparire meno discriminatoria nei confronti di una religione specifica. "Più una politica sembra riflettere un giudizio ponderato ed esperto, meno i tribunali sono tentati dal contrastare l'esecutivo", spiega all'agenzia britannica il professor Saikrishna Prakash della Virginia School of Law, secondo il quale l'ultimo decreto "appare meno una questione di pregiudizi o il desiderio di soddisfare una promessa elettorale". Non solo, dopo l'Iraq anche il Sudan è uscito dalla "lista nera" e sono inoltre previste deroghe per gli iraniani e i somali.
Non solo. Questa volta la Casa Bianca ha deciso dopo aver preso in esame l'affidabilità dei passaporti elettronici di ogni singolo Paese e la condivisione dei dati sulla sicurezza con Washington. È risultato che, nel complesso, 47 nazioni - tra le quali quelle coinvolte dal blocco - continuano a mostrare criticità e altre 40 hanno invece registrato miglioramenti, comprese undici che hanno acconsentito a condividere informazioni su terroristi e presunti tali. In questo modo, afferma Margo Schlanger della Michigan Law School, risulta "attenuato il legame tra i presunti pregiudizi del presidente e le sue politiche". Questa volta, spiega la docente, chi farà ricorso dovrà sostenere che la discriminazione è basata sulla nazionalità e violerebbe quindi l'Immigration and Nationality Act.
Le associazioni umanitarie non appaiono però intenzionate ad arrendersi. "Questo è ancora un 'muslim ban', hanno semplicemente aggiunto tre Paesi", ha dichiarato Becca Heller, direttrice dell'International Refugee Assistance Project, "di questi Paesi, il Ciad è a maggioranza musulmana, i viaggi dalla Corea del Nord sono già praticamente congelati e le restrizioni per il Venezuela colpiscono solo funzionari di governo per certe categorie di visti".