Per due mesi è stato una "bidaa", una merce, in mano a trafficanti che lo hanno comprato e venduto, insultato e picchiato, con la promessa che avrebbe lasciato la Libia e sarebbe arrivato in Italia.
Abdelghani Boulmane compirà 25 anni il prossimo 25 gennaio, a luglio ha lasciato casa in Marocco per tentare la sorte e raggiungere l'Europa, passando attraverso l'inferno libico. Ora dall'Emilia Romagna, dove è ospitato in attesa dell'esame della sua richiesta di asilo, ha scelto di raccontare la sua storia all'Agi.
"Se avessi saputo che cosa avrei sofferto durante il viaggio non sarei mai partito. Più volte ho pensato di tornare indietro, mollare tutto a metà strada, perchè temevo per la mia vita ma non potevo permettermelo. Questo viaggio, che si è trasformato nel peggiore incubo della mia vita, mi è costato oltre tremila euro. Soldi che mio padre si era fatto prestare da altri".
L'ennesimo sacrificio di una famiglia numerosa che vive in un villaggio sui Monti dell'Atlante, Beni Mellal, per tentare di uscire dalla povertà.
"Non mi hanno mai chiamato per nome, per loro noi eravamo solo una merce", racconta Boulmane. "La dignità delle persone viene completamente annullata, il nostro valore è azzerato, non contavamo nulla. Ci odiavano nonostante fossimo per loro fonte di reddito".
Tutto è cominciato nel luglio scorso. "Un ragazzo del mio quartiere mi ha detto di aver contatti con un trafficante libico che ci avrebbe permesso di attraversare il Mediterraneo e arrivare in Europa. L'ho chiamato e mi ha chiesto tremila euro per il viaggio".
Il 18 luglio ha lasciato Beni Mellal in partenza per l'Algeria con in mano solo il numero di telefono di un passeur, il primo dei 24 che incontrerà lungo la sua odissea.
"Mi ha portato in una fossa in mezzo al deserto algerino. Ero da solo e dovevo aspettare che arrivassero altre sette persone che avrebbero fatto parte del gruppo di viaggio per raggiungere la Libia".
Messa insieme la comitiva di disperati, il passeur li ha disposti uno sopra l'altro in mezzo ai mattoni in un pick-up. "Siamo stati seppelliti per nasconderci dalle autorità". Un viaggio di 14 ore che è costato 150 euro a persona.
Al confine con la Libia l'accoglienza non è stata migliore. "Ci hanno tenuti in un recinto per animali - ricorda il 24enne - Sotto il sole, a 45 gradi, senza acqua e cibo". La salvezza, se così si può definire, si è presentata con due uomini armati. "Ci hanno accompagnati fino al confine. Poi a piedi abbiamo percorso un sentiero in montagna".
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Gli otto migranti hanno camminato per diversi chilometri prima di imbattersi nei loro nuovi sequestratori. "Ci hanno fatti salire, a calci e pugni, su un altro pick-up, nascosti da un telo. Abbiamo viaggiato per un giorno e una notte prima di arrivare in una casa in mezzo al nulla. Per terra c'erano dei datteri: è stata l'unica cosa che abbiamo potuto mangiare in due giorni".
Per quasi due settimane il gruppo è stato tenuto segregato in uno stanzone in mezzo al nulla, nella provincia di Zuara, in attesa dell'ordine per imbarcarsi. Un ordine che non arrivava mai.
"Le violenze erano quotidiane, ci picchiavano senza alcuna ragione. Erano sempre armati di kalashnikov e li usavano per colpirci in testa e sul volto. Non avevamo nè acqua nè luce, non potevamo parlare tra di noi. Abbiamo vissuto nel terrore per settimane. C'erano stanze con duecento persone, era difficile persino dormire". Con loro anche donne e bambini, che non subivano trattamenti migliori.
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Sono seguiti poi altri trasferimenti, prima a Tripoli poi a Khoms. "Eravamo divisi per gruppi e ognuno apparteneva a un trafficante. Prima di ogni trasferimento facevano un appello dove chiamavano i vari gruppi associati ai nomi dei loro 'proprietari".
L'ultimo viaggio l'hanno fatto a bordo di un camion, in 45. "In tanti hanno rischiato di soffocare", testimonia Boulmane. Arrivati all'ultimo nascondiglio, con duecento persone, si sono messi a preparare il gommone: "Alcune parti sono state strette solo a mano, perchè non c'erano gli attrezzi. Abbiamo capito che saremmo andati a morire". Quella notte è partito un primo gruppo di 130 persone: lo scafista ha sbagliato rotta e non è riuscito a lasciare le acque libiche.
"La notte dopo, il 29 settembre, è arrivato il nostro turno: ci hanno sistemati sul gommone sempre a calci e pugni. Il trafficante ha chiesto se c'era qualcuno di noi che sapeva guidare il gommone. Si è offerto un senegalese che in realtà non lo sapeva fare e ha rischiato di farci finire in acqua dopo pochi minuti".
Al timone è andato poi un marocchino che in passato aveva fatto il marinaio. "Abbiamo navigato per oltre dieci ore, prima che si rompesse lo scafo e cominciasse a imbarcare acqua". I soccorsi sono arrivati tre ore dopo. "Qualche minuto in più e saremmo annegati tutti. Sono stati la nostra salvezza". Tre giorni dopo siamo arrivati a Palermo. "Tornassi indietro non lo rifarei, per nessuna ragione al mondo".