Dialogante con Kim, duro con gli ayatollah, che lo hanno sfidato superando il limite di 300 chilogrammi di uranio arricchito consentito dall'accordo siglato nel 2015 con la comunità internazionale. Se Donald Trump, nel weekend, ha varcato il confine con la Corea del Nord per stringere la mano al dittatore di Pyongyang, pochi giorni dopo, però, è toccato a lui vedere gli iraniani oltrepassare una soglia per reagire al ritiro di Washington da quell'intesa e all'ondata di sanzioni scatenate dall'amministrazione americana contro Teheran.
L'approccio odierno degli Stati Uniti verso la Repubblica Islamica è diametralmente opposto rispetto a quello maturato nei due mandati di Barack Obama, che con Kim non era riuscito mai a dialogare ma aveva realizzato l'obiettivo di attrarre l'Iran di Hassan Rohani in una rete di relazioni multilaterali, da cui scaturì anche l'accordo sul nucleare.
Al contrario, la politica avviata da Trump ha messo a tacere, almeno per il momento, chi la bomba atomica la possiede già, e non manca di farlo sapere al mondo con i suoi periodici test, ma ha accelerato la corsa di Teheran per averla. A spingerlo a usare un giorno il bastone e l'altro a mostrare la carota, in un atteggiamento che ai suoi critici sembra ondivago, è un assetto complesso di alleanze nella regione mediorientale, ma anche uno scontro tra poteri nella stessa Casa Bianca, a cui fa da riflesso l'eterna partita tra riformisti a conservatori a Teheran.
In Iran, infatti, sembrano ormai i Pasdaran (ovvero i Guardiani della rivoluzione iraniana, l'elite militare e finanziaria a custodia dell'ortodossia khomeinista) a condurre un gioco che si è fatto durissimo, e ha visto un Paese sempre pù tramortito dalle sanzioni, in cui i riformatori, rappresentati dal presidente iraniano e dal capo della diplomazia Javad Zarif si rassegnano a sperare nella mediazione della Guida Suprema, Ali Khamenei.
Far emergere l'ala dura nello schieramento del campo avversario era forse l'obiettivo di Trump, che ama avere davanti a sé scenari semplici come quello nordcoreano: a Pyongyang non esistono sfumature, e le chiavi del paese le ha in mano solo Kim, con cui il presidente americano si trova a proprio agio nel linguaggio informale e negli scambi epistolari. Non si tratta, insomma, di quel gioco degli scacchi che ha negli iraniani gli artefici.
Ma se oggi Trump sembra aver realizzato parzialmente la propria strategia da golfista, più in là potrebbe faticare a spingere la pallina nella buca di Teheran, almeno con pochissimi colpi, poiché deve sempre più tenere a bada i 'falchi' al proprio fianco, a partire dal segretario di Stato, Mike Pompeo, e dal Consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, artefice della guerra nel Golfo.
Donald Trump, che per il consenso ha un grande fiuto elettorale, la guerra non la vuole, né con la Corea del Nord né con l'Iran. Ma sono due le variabili che potrebbe non riuscire a controllare: Israele, del quale i Guardiani della Rivoluzione vogliono la fine; e l'Arabia Saudita, contro cui la Repubblica Islamica combatte una guerra per procura in Yemen, cruciale per l'egemonia nella regione. In un quadro del genere sembra diventare arduo immaginare un disgelo simile a quello in corso tra Pyongyang e Seul, e i Pasdaran diventare colombe.