Articolo aggiornato il 30 ottobre 2017
L'inventore danese Peter Madsen ha ammesso di aver smembrato il corpo della giornalista svedese Kim Wall a bordo del suo sottomarino nel'agosto scorso e di aver scaricato le parti del cadavere in mare. Ma continua a negare di averla uccisa. E' la nuova svolta nel giallo della morte della Wall, dopo che il 14 ottobre Madsena aveva raccontato che la donna era stata uccisa dalle esalazioni di monossido di carbonio all'interno del sottomarino.
Nelle udienze precedenti, Madsen ha affermato che Wall era stata ferita a morte da un pesante portello del sottomarino UC3 Nautilus, ma l0'assenza di fratture sul cranio aveva smentito questa riciostruzione. Numerose ferite da arma da taglio sono state trovate intorno ai genitali della donna.
La testa decapitata e le gambe della Wall erano state trovate all'inizio di ottobre, mesi dopo la sua scomparsa dopo che si era avventurata in mare con Madsen. Le parti del cadavere sono state ritrovate in una busta di plastica a 12 metri di profondità al largo della costa di Copenaghen, vicina al luogo dove, ad agosto, era affiorato il busto mutilato della donna.
I sommozzatori avevano hanno anche ritrovato la gonna, i calzini e le scarpe, assieme a un coltello, all'interno di buste di plastica appesantite da pezzi di metallo perché affondassero.
Articolo aggiornato il 30 ottobre 2017
Storia di Kim, la giornalista fatta a pezzi dopo un giro su uno strano sottomarino
Kim Wall era nata il 23 marzo 1987 a Trelleborg, provincia scandinava di Scania, che dalla Svezia si protende come l’unghia di un indice verso la Danimarca, alla quale appartenne fino al ‘700 e forse un po’ appartiene ancora per dialetto, perché linguisti appassionati di interminabili diatribe si ostinano ad attribuirlo all’idioma danese.
Con la voglia di raccontare il mondo
La cittadina di Trelleborg dovette instillare in Kim l’inclinazione a una vita internazionale, perché da un’economia basata sui passaggi delle aringhe, così tante che bastava gettare la rete per tirarla piena, divenne ed è tuttora un crocevia per la penisola scandinava e i suoi traffici con la Germania e la Polonia. Ne fruì nel 1917 Vladimir Lenin, il quale col favore dei tedeschi fece di Trelleborg la base del fatale viaggio verso la Rivoluzione.
C’è un corpo nudo di donna modellato in bronzo, il titolo è “L’abbraccio”, che guarda dal 1930 il porto dei pescatori di Trelleborg, lo Smygehuk. Prestò le forme a Axel Ebbe, scultore, la giovane Birgit Holmquist, nonna materna di Uma Thurman, che fu indiscutibilmente bella. E guardando la statua si scoprono le analogie fra le generazioni. Scempiato il corpo dal raptus dell'assassino, di Kim sappiamo quel che rivelano le foto profilo sul web: fu indiscutibilmente bella.
Partì da Trelleborg con ambizioni e spiccato talento che la spinsero, dopo la scuola superiore nella vicina Malmö, prima a Lund poi a Londra, dove studiò dal 2008 al 2011 alla London School of Economics. Con ormai precisata passione per il giornalismo, se n'andò a New York, alla Columbia University e trovò spazio in America. Scelse la carriera di freelance e i suoi articoli – rivelatori di disparati interessi e inquietudini – apparvero su testate dove molti vorrebbero i propri: “Harpers”, “The Guardian”, “New York Times”, “Foreign Policy”, “Time” e “South China Morning Post”, facendo nel 2013 un’esperienza di quattro mesi a Hong Kong.
Il rischio fatale e non calcolato
Si provò nel mestiere dovunque portassero le Lonely Planet. Dal dopoguerra in Sri Lanka all’industria turistica nel dopo terremoto a Haiti. Si occupò di Cuba o di eccentriche destinazioni che sarebbero piaciute a Bruce Chatwin: dall’esplorazione di una Chinatown in Uganda alle camere di tortura dell’ex dittatore Idi Amin, dal declino dei riti vudu nei Caraibi ai test nucleari alle Isole Marshall. Fu per questo servizio insignita, a maggio dell’anno scorso, di un ambìto premio intitolato alla memoria della fotogiornalista tedesca Hansel Mieth. Appena a luglio scorso, in una “Lettera da L’Avana” pubblicata su “Harper’s Magazine”, Kim raccontava dell’arretratezza tecnologica del Paese e di quanto siano lontane fra loro due cose come Internet e il comunismo castrista.
Pochi giorni fa, tuttavia, Kim Wall s’interessa di questo curioso inventore Peter Madsen, ingegnere aerospaziale danese di 46 anni, che ha assemblato grazie a una raccolta di fondi un sottomarino artigianale. Ci ha messo tre anni per costruirlo e nove per raccogliere i 200 mila dollari necessari. Battezzato “UC3 Nautilus”, con questo nome tolto a Jules Verne l’ingegner Madsen non va ventimila leghe sotto i mari come il Capitano Nemo. Bordeggia piuttosto il domestico braccio di mare fra le coste di Danimarca e le sponde di Trelleborg. L’intenzione di confezionare un reportage sembra più obbedire, per Kim, a qualche curiosità dell’infanzia che ai programmi del suo profilo Linkedin, dove dichiara – purtroppo, dichiarava – di scrivere su identità di genere, cultura pop, giustizia sociale, politica estera e ribellioni.
Il reportage che non fu mai scritto
Il viaggio in sottomarino è terminato prima di diventare il nuovo reportage di Kim. Sembra difficile nutrire dubbi sulla colpevolezza di Madsen malgrado i suoi racconti, la polizia non ne ha nessuno, anche se Madsen resta indagato solo per omicidio colposo. Certo è che Kim è stata trovata a pezzi dopo quel giro sul sommergibile.
Alle sette di sera del 10 agosto scorso, dal porto copenaghense di Refshaleøen, Kim salì sul “Nautilus” per un giro e un’intervista all'ingegnere, ma quando il natante non tornò il suo compagno avvertì le autorità. L’11 la guardia costiera soccorse il naufrago Madsen nelle acque dell’Øresund, ma la giornalista non era più con lui. L’ingegnere raccontò che l'aveva sbarcata qualche ora prima dell’avaria del sommergibile. Poi cambiò versione e disse che era morta in un incidente a bordo e lui l’aveva “sepolta” in mare. Fu accusato di omicidio colposo e di avere affondato il “Nautilus” apposta. Tuttora non modifica il suo racconto: nega il delitto, anche se sul relitto del "Nautilus" sono state trovate copiose tracce di sangue della giornalista. Al momento resta accusato di omicidio colposo, e anche i media locali non si sbilanciano con ipotesi giudiziarie.
Ieri, quando le acque della baia di Køge hanno restituito i resti di Kim dopo giorni di incessanti ricerche, si è scoperto un delitto che solo la follia può motivare. La dissezione di arti e testa risulta volontaria e non decisa dal mare. Resta un mistero che forse si chiarirà. L'ingegner Madsen, intanto, dovrà rinunciare a un’altra molto più nobile follia. Non potrà partecipare al progetto Copenhagen Suborbitals, l’unico programma spaziale nel mondo su base amatoriale e volontaria, tuttora attivo e di cui fu tra i fondatori. Kim, pure addestrata a situazioni d’emergenza ai quattro angoli del mondo, non aveva approfondito gli impensati rischi nelle familiari miglia marine vicine a casa sua.
Qualcuno, intanto, nota la similitudine fra il caso tragico di Kim e la serie tv "The Bridge", che comincia con il ritrovamento di un corpo di donna mutilato proprio vicino a Copenaghen.