Che fine hanno fatto i Gilet Gialli? E dov’è finito il Movimento nato sette mesi fa, il 17 novembre dello scorso anno - che “odorava di diesel e jacquerie” e affascinava Luigi Di Maio - alla sua prima uscita aveva portato in piazza 280 mila persone, paralizzando Parigi e la Francia tra picchetti sulle rotaie dell’Esagono, strade e autostrade bloccate, fabbriche occupate e centri decisionali dell’élite attaccate?
Se lo domanda oggi Il Foglio, nella sua edizione cartacea, in un servizio che occupa una pagina intera, sondando opinioni e opinionisti d’oltralpe. E la risposta essenziale è un po’ in queste righe: “Dopo sette mesi, la mobilitazione si è già divisa per quaranta, i leader storici sono scesi tutti dal carro e il risultato catastrofico ottenuto dalle tre liste gialle alle elezioni europee 0,58 per cento in totale, ha scoraggiato anche gli ultimi resistenti che credevano di fare la révolution con i social network”.
Tuttavia di gilet irriducibili ce ne sono ancora diversi in circolazione. E i numeri dicono che il movimento è molto più ampio di quei manifestanti che continuano ogni sabato, contro ogni intemperia, a sfilare nelle strade di Francia “per denunciare il presidente dei ricchi’, il ‘fottuto banchiere’ (copyright Mélenchon) di cui non c’è da fidarsi anche se ha scucito 10 miliardi di misure per rispondere alla rabbia della provincia”. E anche se poi, alla fin fine, ha organizzato una delle più grandi consultazioni democratiche della storia del Quinta Repubblica, il Grand débat national, “e sta facendo le riforme e risollevando l’economia dopo gli anni grigi dell’immobilismo hollandiano”.
Una protesta "sovramediatizzata"?
Il punto debole dei gilet è che la loro rabbia non è riuscita “tradursi in azione politica” e che forse non ci fosse stata una “sovramediatizzazione delle proteste” il Movimento non avrebbe avuto una così vasta cassa di risonanza e non sarebbe durato nemmeno così a lungo. E su questo punto sono in molti ad essere d’accordo.
Persino Jean-François Barnaba, l’ex portabandiera della protesta gialla, che voleva presentarsi alle europee con la lista “Jaunes et citoyens”, ma che per mancanza di fondi ha bussato alla porta di Florian Philippot, l’ex braccio destro di Marine Le Pen, candidatosi senza successo a Bruxelles sotto l’etichetta “Ensem - bles patriotes”. Più stampa e tv che francesi realmente mobilitati, dunque. “Oggi sono diventati più timidi” ha scritto il settimanale Express.
E le ragioni del loro raffreddamento vanno anche cercate in queste motivazioni: “Manifestiamo da sei mesi: come per i poliziotti, ciò comporta molti problemi familiari, tra divorzi e bambini che chiedono di vedere i loro genitori durante il weekend”, ha spiegato Jérôme Rodrigues, il “gilet con la benda” trasformato in un martire dal popolo giallo da quando è stato ferito all’occhio da una pallottola di gomma dei Crs, la polizia antisommossa francese.
Disillusione e dissoluzione
Per il Monde è invece arrivata “l’heure du découragement”, cioè il tempo della disillusione. E anche della rassegnazione. Dello sconforto per una mobilitazione che era iniziata “con vigore ma senza guerriglie urbane” e con denunce ritenute legittime all’eccessiva pressione fiscale francese, “finendo poi per diventare una protesta ottusa e senza obiettivi precisi contro Macron e tutto ciò che rappresenta”, si legge. Insomma, una protesta che alla fine è risultata “sequestrata da un manipolo di agitatori bercianti e capipopolo autoproclamati che hanno utilizzato il malêtre della Francia profonda per avere qualche giorno di gloria mediatica”.
“Di ‘deriva totale’ ha parlato anche il più radicale dei gilet gialli, Éric Drouet, dove per deriva, però, intende il pacifismo dei manifestanti scesi in strada durante gli ultimi sabati”. Lui, scrive il quotidiano diretto da Claudio Cerasa, “vorrebbe ancora gli scontri muscolari sugli Champs-Elysées, le raffinerie occupate, le operazioni escargot attorno a Parigi, i blocchi dei caselli autostradali, l’anarchia generalizzata, vorrebbe ancora ‘fare irruzione all’Eliseo’, come ebbe a dire lo scorso dicembre, nel momento più critico e pericoloso della protesta”.
Ma poi c’è il bagno di realtà e di realismo. Come quello sperimentato in prima persona da Christophe Chalençon, il fabbro originario del Vaucluse che ha incontrato il ministro dello Sviluppo economico italiano Luigi Di Maio e ha persino invocato un golpe militare al fine di rimuovere Macron. E che gli è accaduto? “Si è presentato alle elezioni europee con la lista Evolution citoyenne ottenendo un misero 0,01 per cento – le altre due liste gialle, l’Alliance citoyenne del cantante Francis Lalanne e il Mouvement pour l’initiative citoyenne che aveva come unico punto programmatico la generalizzazione del Ric, il referendum d’iniziativa civica, hanno raccolto rispettivamente lo 0,54 per cento e lo 0,03” fa i conti Il Foglio.
E da questo punto di vista, quello puramente elettorale, “non si può che constatare la dissoluzione totale dei gilet gialli” dichiara al Foglio il giornalista del Figaro François-Xavier Bourmaud, Si sono infatti presentati addirittura con tre liste, “non con una, e hanno superato a malapena lo 0,50 per cento”.
Un fenomeno ciclico?
Per il politologo Jean-Yves Camus, direttore dell’Observatoire des radicalités politiques, “in termini di mobilitazione resta certamente poca roba dei gilet gialli, ma in termini politici e psicologici il discorso è diverso. Politicamente hanno spinto il governo a mettersi in discussione, ad accelerare il lancio del secondo atto del quinquennio”. E poi la reazione di Macron è stata quella di mettere mano a 10 miliardi di misure per venire incontro alla rabbia e il lancio Gran débat national, due aspetti che possono aver influito enormemente nell’indebolimento progressivo dei gilet gialli.
Una crisi inedita, dunque, quella della più radicale protesta francese degli ultimi tempi, a partire dal ’68, cinquantun anni fa. Già, il 1968… E ancora secondo François-Xavier Bourmaud, la crisi dei gilet gialli appartiene a quelle crisi sociali che per la Francia sono cicliche e si ripresentano, puntuali, “ogni trent’anni”. Ovvero? “C’è stato il 68’, poi ci sono stati gli scioperi del 1995 (contro la riforma delle pensioni e della sicurezza sociale promossa dal primo ministro di allora, Alain Juppé, ndr), e oggi ci sono i gilet gialli” dice il giornalista. Un fenomeno ciclico.
Pur tuttavia, una cosa è certa: “Se Macron non ottiene dei risultati economici che provano la bontà delle sue misure, ci potrebbero essere delle conseguenze sull’esito elettorale delle presidenziali del 2022”. Ma per questo c’è ancora tempo. In fondo “tre anni sono tanti, ma senza traduzione concreta delle riforme che sta portando avanti nella vita quotidiana dei francesi, i gilet gialli potrebbero contestare Macron durante il voto”.
Non è affatto escluso, che una parte dei gilet rinunci per sempre a recarsi alle urne per esprimersi. Ma “ciò che temo maggiormente, è il rancore e la frustrazione che potrebbero scatenarsi non solo verso l’esecutivo e il presidente della Repubblica, ma anche verso la democrazia rappresentativa in generale” chiosa Jean-Yves Camus, che aggiunge: “Gran parte dei gilet hanno l’impressione di essersi mobilitati per settimane senza essere ascoltati fino in fondo, senza ricevere risposte all’altezza delle loro rivendicazioni. C’è anche il sentimento che le manifestazioni siano state represse con troppa durezza dalla polizia. In alcuni casi, non c’era alternativa perché ci sono stati dei veri e propri disordini e scene di guerriglia urbana, ma altre volte ci sono stati degli eccessi che hanno causato dei feriti gravi. Per la coesione nazionale, di certo, non è una bella notizia”.
La grande incognita è la “frustration”. Che non si sa dove possa condurre. Oggi e in futuro.