Brexit, Trump, Medio Oriente: tutti i dilemmi di Jeremy Corbyn
La questione di fondo che il prossimo governo britannico dovrà affrontare, indipendentemente dalla sua matrice politica e culturale, sarà la necessaria ridefinizione del suo ruolo nella comunità internazionale

L'anniversario dello sbarco in Normandia e l'annessa visita a Londra di Donald Trump hanno messo il Labour britannico, ben oltre le apparenze, di fronte ad un dilemma. Questo: cosa faremmo noi se fossimo a Downing Street, magari anche solo in un governo di coalizione? La Brexit, infatti, è anche un problema di ricollocamento del Regno Unito all'interno della comunità internazionale, e un eventuale governo a preminente presenza laburista vedrebbe in Jeremy Corbyn o a Downing Street, o al Foreign Office.
È tempo per procedere con una riflessione, perché qua non si tratterebbe solo di tornare al pubblico in economia. Si tratterebbe di Nato, armamenti nucleari, pace in Medioriente e una partnership più o meno privilegiata con Washington. Questioni che interpellano anche buona parte della sinistra del resto dell'Europa. Proprio il rapporto con gli Stati Uniti costituirebbe per un governo senza conservatori - e senza brexiteers - il primo dei banchi di prova. Trump, nella sua visita a Londra, ha insistito non poco con le garanzie commerciali ad un Regno Unito che esca dall'Ue senza se e senza ma.
Il paradosso laburista
Poi però ha aggiunto che nell'ambito delle trattative sugli accordi "mirabolanti" di natura commerciale potrebbe rientrare anche una revisione del Sistema Sanitario Nazionale britannico. Il che, oltre ad essere una potenziale messa in discussione della sovranità del Regno Unito, andrebbe ben poco d'accordo con il programma di un esecutivo laburista. Si avrebbe così il paradosso di un Regno Unito che resta fedele agli esiti del referendum sulla Brexit (come negli auspici dello stesso Corbyn, nonostante l'idea contraria di una buona parte dello stesso partito laburista) e che si allea con l'uomo contro cui ha protestato con veemenza lungo le strade di Londra, pochi giorni fa.

Un uomo con cui il segretario del Labour potrebbe trovare un altro punto d'incontro di carattere sostanziale, la Nato. Qui il neoisolazionismo americano e il terzomondismo laburista potrebbero registrare un'intesa, forgiata tanto sull'atlantismo anglosassone quanto sulla diffidenza di una alleanza militare sorta per garantire l'Europa continentale nei confronti della Russia.
Il dilemma delle spese militari
Il disimpegno degli uni andrebbe a braccetto con il disimpegno degli altri. Ma Trump, in questi primi anni di mandato, ha sollevato l'argomento dell'Alleanza Atlantica senza dare un particolare seguito alle sue minacce. Quanto ai laburisti britannici, lo scetticismo del segretario nei confronti del Patto Atlantico non ha impedito al partito di pronunciarsi a favore del mantenimento e del rinnovamento del programma nucleare Trident. Non solo per un fatto di continuità con il passato - furono proprio i laburisti molti decenni fa ad aderire alla Nato - quanto per la necessità di salvaguardare le migliaia di posti di lavoro britannici che ruotano attorno alla difesa nucleare.
La spesa pubblica per la difesa, attualmente, equivale al 2 percento del Pil. Difficilmente verrà ridotta con un cambiamento del quadro politico nazionale. Del resto la decisione del governo conservatore di inviare un proprio contingente in Estonia, nell'ambito del rafforzamento della presenza militare occidentale lungo i confini russi, ha trovato presso l'opposizione un atteggiamento di disponibilità.
L'intervento in Kossovo di due decenni fa venne varato, inoltre, da un governo labourista. La natura del partito, da quell'epoca, è radicalmente mutata, ma nella base e nel gruppo parlamentare si traccia una distinzione tra quel tipo di azione militare - basata nella percezione comune su motivazioni umanitarie - e la partecipazione ad esperienze come la guerra in Iraq del 2003. Priva, quest'ultima, di ogni fondamento giuridico e combattuta solo per convenienze geostrategiche.

Sulla base degli stessi convincimenti, è presumibile, si avrà un cambiamento nell'ambito della politica mediorientale. Qui il contrasto con i punti fermi dell'azione statunitense sarebbe palese. Corbyn è notoriamente vicino alla causa palestinese ed è stato addirittura accusato, ancora di recente, di antisionismo ed antisemitismo. Al di là della effettiva fondatezza delle accuse, è facile immaginare un ruolo britannico ben più vicino alle tradizionali posizioni europee, anche sulla spinosa questione iraniana. Ma quando si tratta dell'Europa si torna al problema della Brexit, e del ruolo che questa regalerà a chi l'ha voluta con tanta forza.
Una scelta di identità
La questione di fondo che il prossimo governo britannico dovrà affrontare, indipendentemente dalla sua matrice politica e culturale, sarà la necessaria ridefinizione del suo ruolo nella comunità internazionale. Anche nel caso della nascita di una partnership speciale con gli Usa, sulla scia del progetto del governo McMillan all'inizio degli anni '60, Londra dovrà rivedere molte cose. La prima è il ruolo con l'Unione Europea, naturalmente. Ma anche nei teatri tradizionali come proprio il Medioriente o l'Africa Subsahariana una Gran Bretagna rimasta solitaria vedrà ridimensionare notevolmente il suo peso.
Prima o poi sarà costretta a passare dalla mentalità di una potenza semi imperiale a quella di una potenza media, se non medio-piccola. Duro a dirsi, ma difficilmente eludibile. L'idea che si va facendo strada, nel Labour, è quella di dotarsi di un'azione di influenza più che di presenza. Di grande e suadente suggeritrice, più che di potenza operativa. Sul modello di un paese scandinavo, per intenderci. Ma qui il peso del passato, una volta di più, potrebbe essere poco sopportabile, grazie anche alla memoria altrui.
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