Vendere in Cina è una questione di lusso
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Vendere in Cina è una questione di lusso

Vendere in Cina è una questione di lusso

Distribuzione. Gli spazi commerciali più pregiati nei department store, anche nelle città di seconda e terza fascia, sono difficili da trovare
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PAGINA A CURA DI
Rita Fatiguso
L'ha detto, a denti stretti, anche un peso massimo del calibro di Renzo Rosso, l'inventore del marchio Diesel: «In Cina c'è bisogno di un partner». Stefanel il partner cinese l'ha appena trovato per la creazione di una rete di decine di negozi monomarca.Quello cinese resta un terreno aspro, in cui non basta constatare il fatto che gioielli, mobili e oggetti di arredo, scarpe e accessori, prodotti alimentari e cosmetici, settori di eccellenza per il made in Italy, siano in rapida crescita. Ci vogliono spalle forti. Per le nostre imprese, specie di calibro medio-piccolo, è urgente imbroccare la strada giusta per vendere i loro prodotti. Perché trovare location adatte a un costo sostenibile non è semplice.
«La decisione di trovare un partner e affidare le vendite alla società partner è una mossa lungimirante e quasi obbligata - dice Romeo Orlandi, presidente del comitato scientifico di Osservatorio Asia. Il progresso della Cina nella distribuzione non è stato pari a quello della produzione. Fabbricare merci è stato più facile che dispensare servizi. La vendita dei prodotti italiani non è tanto legata al prezzo, quanto alle difficoltà della distribuzione. Far arrivare un prodotto in una vetrina cinese è più difficile che venderlo. Per questo qualsiasi scorciatoia adottata dalle aziende italiane non può che essere redditizia».
«Il sistema cinese è diverso dal nostro - avverte da Pechino Steven Luo, China desk di Pambianco - se non si conoscono i percorsi giusti si rischia di commettere errori fatali. Non solo. Bisogna stare attenti ai costi e scegliere soluzioni idonee, la pubblicità è solo una parte del problema. Il cuore sta nella scelta tra department store, corner in un centro commerciale, oppure monomarca in franchising. Ci sono costi fuori dalla portata del tipico imprenditore italiano, di medie dimensioni. Per quanto riguarda la mia società in Cina - continua Steven Luo - la Shanghai Luopan International trade co. - volevamo vendere scarpe belle e ben fatte prodotte nel distretto marchigiano di Fermo, assolutamente made in Italy. Ma nessuna azienda italiana del network aveva, da sola, la forza di andare in Cina: così, abbiamo aperto tutti insieme a Pechino lo showroom Rinascimento. Che sta funzionando».
Le prospettive di crescita ci sono, nella Terra di Mezzo. «Il nostro export è destinato a restare in quota, anche nel caso di rallentamento. Indubbiamente - commenta Giuliano Noci, prorettore del polo territoriale cinese del Politecnico di Milano - è alla Cina che dobbiamo far capo e, in particolare, al mercato delle cose belle, quello che crescerà comunque anche nel caso di rallentamento della crescita cinese. Ovviamente, bisogna essere attenti e avere una strategia sul territorio definita».
«Quando vado nelle città cinesi di secondo-terzo livello - dice Lelio Gavazza, che sta guidando l'espansione dei negozi Bulgari in Cina a ritmo sostenuto - spesso mi sento proporre situazioni assolutamente non all'altezza per quanto riguarda le location, almeno comparandole ai prezzi e alle condizioni di Pechino o Shanghai. Se questo problema è gestibile, più complicato è il tema delle risorse umane: quelle di Shenyen non sono quelle di Xian né, tantomeno, quelle di Whenzhou o Shanghai».
Poi c'è anche un versante finanziario: si fa entrare nel capitale il partner locale che già distribuisce oppure produce per i cinesi. Una situazione sempre più frequente, come dimostra il caso del gruppo Sixty, che ha appena creato un'alleanza con il suo distributore locale. «Di simili situazioni in corso ce ne sono almeno una ventina - rivela Alberto Forchielli, partner fondatore del fondo Mandarin - e io la riassumerei così: cinese scaccia cinese, in pratica allearsi con il partner e condividere la rete di vendita. Quindi, è giusto far capo a un alleato locale: la via finanziaria, secondo me, è quella più adatta ad aggredire il mercato e vendere in Cina».
E c'è la via telematica, da non sottovalutare. La indica Marco Tchen, cinese di seconda generazione che ha creato a Shanghai l'agenzia di consulenza Nuovo Mondo: «I consumatori benestanti preferiscono brand stranieri: in pratica il 52% dei consumatori con un reddito superiore ai 30mila euro - dice Tchen -, perché in Cina le vendite al dettaglio supereranno nel 2016 quelle americane, nell'ultimo anno sono cresciute del 18,7%, nel 2010 l'anno precedente era del 15,2%. Ma guarderei con attenzione a Internet: il più grande microblogger in Cina è Sina Weibo, con il 60% del mercato. I cinesi adorano gli smart phone, negli ultimi 3 mesi sono stati venduti 24milioni di pezzi. La Cina è il primo mercato per crescita di Apple per l'Iphone. Non si potrà prescindere da questi canali di vendita».
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Vetrine esclusive
3-5 mila euro

Un negozio a Shanghai nella centralissima Huaihai Road (nella foto) costa in affitto minimo 3-5mila euro al metro quadrato. La buonuscita vale minimo 300-400mila euro. Esiste anche una procedura particolare: la richiesta va presentata allo Shanghai dipartiment business che valuta se il marchio è conosciuto oppure no per dare il via libera all'apertura. I valori scendono del 30-40% in caso di città del secondo anello tipo Xian e addiruttura del 40-50 se parliamo di terzo anello tipo Hoqqot in Mongolia interna


I PUNTI CHIAVE

01|IL MERCATO
Bisogna presidiare direttamente il mercato: le imprese italiane si affidano spesso ad agenti locali indipendenti che "fanno il bello e il cattivo tempo". Con un presidio diretto, si conosce meglio il mercato e nel contempo aumenta il potere contrattuale dell'impresa.
02|LA FORMULA
Non è molto sviluppato il mestiere del buyer, questo rafforza la necessità di muoversi in autonomia: la formula del franchising è valida, ma fino a un certo punto. I deparment store sono arretrati con poche "luci" sulla strada, la formula dell'affitto è generalmente sostituita da un contratto legato a una certa percentuale di guadagno sul fatturato, in genere il 25%: questo spiega l'espulsione dal centro in caso di risultati insufficienti. In pratica si punta a ottenere un minimo con tolleranza dell'8-15% rispetto a quanto pattuito: se la prestazione è insoddisfacente si può essere costretti a lasciare i locali anche prima della scadenza dle contratto.
03|I COSTI
Il discorso dei costi pesa sui centri commerciali, soprattutto perchè, a differenza dei deparment store e del franchising, c'è da sopportare le spese dell'arredamento della sicurezza e della gestione concreta degli spazi. Un sistema potrebbe essere quello, per i piccoli e medi imprenditori, di entrare sul mercato con prezzi meno alti per evitare pesanti ricarichi di prezzo in Cina.

02/01/2012
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