Usa-Cina il conto arriva in Europa
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Usa-Cina il conto arriva in Europa

Usa-Cina il conto arriva in Europa

Governance globale. I costi degli squilibri economico-commerciali dei colossi cadranno sui paesi meno forti
di lettura
di Carlo Bastasin

Paesi europei come l'Italia e la Germania vivono tuttora la crisi globale con un misto di estraneità e ingiustizia. Non è colpa loro certamente se l'economia globale era squilibrata, la liquidità troppo abbondante e i banchieri troppo avidi. Ma bisogna essere realisti, nessuno è realmente estraneo al riequilibrio globale e anche per questa crisi il tema della colpa è scomparso dall'ordine del giorno.
L'impegno a coordinare globalmente le economie è tuttavia una delle novità più suggestive - anche dal punto di vista morale - emerse dal G-20 di Pittsburgh. Senza accordi credibili sulle politiche valutarie si tratta però nell'ipotesi migliore di un impegno vulnerabile e in quella peggiore di un meccanismo che consentirà ai paesi politicamente più forti (Usa e Cina) di scaricare i costi dei loro squilibri sui paesi meno forti, a cominciare da quelli dell'euro privi in materia valutaria di rappresentanza politica comune. Con un filo di ipocondria si potrebbe sospettare che i paesi esportatori dell'area euro - prima di tutto proprio Germania e Italia - rischino di pagare con anni di recessione e disoccupazione la bolletta intera degli squilibri globali provocati dal deficit commerciale americano e dal surplus cinese.
Per quanto riguarda le politiche macro, politiche monetarie troppo accomodanti e squilibri globali persistenti vengono considerati i due responsabili della crisi globale. Nessuna delle due può essere imputata alla zona euro. La politica monetaria è sempre stata più ristrettiva di quella americana (e cinese) mentre la bilancia delle partite correnti è rimasta in equilibrio.
Ma in un ambito negoziale forgiato dai rapporti di forza, gli squilibri simmetrici di Cina e Usa, le cui posizioni esterne sono severamente squilibrate, potrebbero rivelarsi fattori di forza politica, non di debolezza. Cina e Stati Uniti hanno la necessità di concordare tra di loro una strategia di uscita dagli squilibri commerciali e lo faranno ovviamente in modo da minimizzarne i costi.
Se la diplomazia economica fosse una questione di giustizia, la Cina dovrebbe stimolare la domanda interna e gli Stati Uniti dovrebbero accettare di scivolare in una lunga fase di ridimensionamento delle proprie abitudini di consumo. I cinesi dovrebbero accrescere significativamente il consumo interno in modo da assorbire l'intero ridimensionamento del deficit commerciale americano. Le politiche strutturali di Pechino mirate a sostenere la domanda interna dovrebbero probabilmente essere associate a un apprezzamento del renminbi tale da modificare i prezzi relativi tra produzioni esposte alla concorrenza estera e produzioni o servizi destinati al mercato domestico, in modo tale da sostenere i consumi di beni importati. Il prodotto aggregato globale rimarrebbe così al suo livello potenziale evitando che si creino situazioni di capacità produttiva inutilizzata. In tal modo anche l'aggiustamento americano potrebbe avvenire in modo non doloroso.
Ma sia la Cina sia gli Stati Uniti hanno un'alternativa più conveniente. La Cina probabilmente preferirà resistere all'idea di assorbire sempre di più le importazioni americane, così come all'idea di rinunciare all'ancoraggio della valuta al dollaro. Conservare un surplus di bilancio è d'altronde una questione a cui si associa significato e forza politici. È una questione anche di sicurezza in un mondo esposto a frequenti crisi finanziarie e in un paese soggetto a un significativo invecchiamento demografico.
In tal caso i produttori americani sarebbero costretti a tagliare sempre più radicalmente i costi di produzione e inevitabilmente finirebbero per ottenere un processo di deprezzamento del dollaro che non potendo colpire la moneta cinese si scaricherebbe interamente sull'euro. Ma perfino nel caso in cui Pechino accettasse di rivalutare la propria moneta, non è certo che possa assorbire per intero il deficit americano. Se uno considera le dimensioni relative delle due economie, può nutrire leggitimi dubbi al riguardo. Le famiglie cinesi dovrebbero aumentare i propri consumi di un terzo solo per assorbire un deficit commerciale americano del 3 per cento. Nell'impossibilità di esportare in Cina, gli americani dovrebbero nuovamente chiedere all'Europa di mandare in rosso la propria bilancia commerciale. Lo stesso farebbero i cinesi dirottando le esportazioni dagli Stati Uniti.
In entrambi i casi, sia con nuovi rapporti valutari tra Usa e Cina, sia senza, i paesi dell'euro dovrebbero diventare gli importatori di ultima istanza. I consumatori della zona euro finirebbero per sostituire le produzioni locali con quelle importate a minor costo. Le imprese dovrebbero ridurre la produzione nei settori degli esportatori per riallocare gli investimenti verso i settori non esportatori, essenzialmente i servizi interni. Una tale trasformazione imporrebbe costi in termini di disoccupazione e perdita di prodotto potenziale facili da immaginare. In altri termini, l'area dell'euro sarebbe costretta a realizzare il doloroso aggiustamento strutturale che i cinesi non hanno intenzione di compiere, in modo da consentire agli americani di correggere i propri squilibri senza pagarne il prezzo.
E chi in particolare pagherebbe la bolletta globale scaricata dal G-2 (Usa-Cina)? Ovviamente i paesi della zona euro la cui crescita dipende sostanzialmente dall'export: Germania e Italia. Quanto tempo passerebbe prima che una risposta protezionistica prendesse piede fermando la crescita globale? Germania e Italia possono considerare ingiusti questi possibili sviluppi, ma entrambi i paesi hanno significative responsabilità nel tenere la domanda interna compressa da interessi corporativi. Dovranno invece liberalizzare le loro economie interne o finiranno per essere tentati da difese protezionistiche, analogamente con l'autarchia che fece seguito alla Grande depressione con le note tragiche conseguenze politiche in entrambi i paesi. Ma ovviamente Pittsburgh non è Versailles. Berlino e Roma devono considerare il loro contributo alla crescita globale e contemporaneamente costruire una rappresentanza politica per l'euro. Solo così potranno essere credibili nel chiedere un coordinamento globale un po' più giusto.
cbastasin@piie.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

07/10/2009
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