Una grande muraglia per i beni di consumo
ADV
ADV
Una grande muraglia per i beni di consumo

Una grande muraglia per i beni di consumo

di lettura
Luca Vinciguerra
SHANGAI. Dal nostro corrispondente
La crisi? «Ma quale crisi?» viene da rispondere passeggiando tra le vie commerciali delle grandi città cinesi. Oltre la Grande Muraglia, di questi tempi la gente spende e spande come non mai. Certo, molto meno di quanto vorrebbe un Governo ansioso di spingere i consumi interni per affrancare l'economia nazionale dalla dipendenza dall'export. E ancor meno di quanto vorrebbero gli americani, sempre più irritati per l'abnorme squilibrio commerciale tra le due superpotenze.
La grande crisi economica innescata dai mutui subprime ha toccato anche la Cina. Ma è passata in fretta. E di quei giorni bui, quando i grandi magazzini erano deserti e gli alberghi semivuoti, oggi resta solo uno sbiadito ricordo. Cos'è cambiato frattanto per il made in Italy sul mercato cinese? «In realtà non molto – risponde Maurizio Forte, direttore dell'Ice di Shanghai – Certo, nel 2009 si è venduto di meno a causa della flessione generale dei consumi. Ciononostante, le esportazioni di prodotti italiani verso la Cina sono andate meno peggio rispetto agli altri paesi e in alcuni settori sono addirittura aumentate». L'anno scorso comparti manifatturieri del made in Italy come macchinari elettrici, strumenti ottici e medicali, prodotti farmaceutici e plastica sono riusciti a incrementare le vendite sul mercato cinese. Questa performance dimostra che le esportazioni italiane verso Pechino proseguono nel solco tracciato diversi anni fa, quando il gigante asiatico scelse l'Italia come fornitore per una serie di prodotti intermedi necessari per avviare e sostenere la modernizzazione del paese. Non è un caso che i macchinari nel loro complesso rappresentino circa il 56% del nostro export in Cina.
La penetrazione dei prodotti di largo consumo invece continua a essere piuttosto bassa. Ma non è un problema di scarso gradimento del made in Italy tra i consumatori cinesi, quanto una caratteristica peculiare del mercato locale. È vero, i cinesi consumano molto di più di quanto non consumassero solo 5 anni fa. Ma restano un popolo di grandi risparmiatori. In questo quadro, le aziende straniere che vendono prodotti più cari rispetto alla concorrenza domestica sviluppano volumi ancora molto contenuti. Basti pensare che nel 2009 l'Italia ha venduto oltre la Grande Muraglia poco più di 280 milioni di dollari di abbigliamento, 150 milioni di scarpe, 110 milioni di arredamento e appena 90 milioni di agroalimentare. Insomma, noccioline.
Il maggior ostacolo a una maggior penetrazione in Cina dei beni di largo consumo italiani è l'accesso alle reti di distribuzione. Grazie alle nuove normative varate qualche anno fa da Pechino, i grandi gruppi (soprattutto quelli del settore moda) riescono ad auto-distribuirsi e a espandere il loro business sul mercato locale. Ma per le aziende più piccole, che non possono contare su catene di retail locali, oggi sbarcare in Cina è quasi una missione impossibile. «Il mercato del largo consumo cinese è ancora immaturo e quindi scarsamente ricettivo per i brand poco famosi – spiega Forte – Ma prima o poi si normalizzerà, nel senso che raggiungerà un maggior grado di segmentazione, che il sistema distributivo diventerà più capillare, che crescerà l'attenzione anche per i marchi medio-piccoli. A quel punto, per le aziende italiane si apriranno opportunità molto interessanti». Oltre al l'abbigliamento, potranno approfittarne altri settori del "sistema persona", come cosmetica e accessori, e l'arredamento. E spazi interessanti si apriranno anche per l'agroalimentare che, sfruttando il canale della ristorazione, potrebbe cercare di conquistare una fetta crescente di cinesi. Ma per evitare di ripetere gli errori del recente passato (come per esempio il clamoroso fallimento della catena di food pechinese Piazza Italia), bisognerà adottare strategie diverse. «Non si può pensare di trasporre l'esperienza italiana in un mercato agroalimentare come quello cinese, poco ricettivo ai prodotti d'importazione e ancora tutto da creare – avverte Giovanni Segni, consulente industriale – Per convincere i cinesi a consumare beni voluttuari come il gourmet food o la moda servono enormi investimenti in comunicazione, pubblicità e brand-building. Il consumatore medio cinese compra straniero solo se ciò gli porta status immediato. Acquista un marchio e non ciò che gli piace. Se deve comprare ciò che gli piace davvero, compra cinese».
ganawar@gmail.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA

30/03/2010
ADV