Un decennio di rivincita per le Borse emergenti
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Un decennio di rivincita per le Borse emergenti

Un decennio di rivincita per le Borse emergenti

MERCATI E RISPARMIO
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Un mondo, in qualche modo, capovolto. Il secolo scorso si era chiuso con il recupero delle Borse, dopo lo «schiaffone» ricevuto dai Paesi emergenti. La crisi, partita nel 1997 dalle Tigri asiatiche, passata per il default di Mosca (con l'aiuto dell'americanissimo Ltcm), e arrivata in quel del Brasile, era stata arginata. Oggi, trascorsi più di 13 anni, il Pil mondiale è sostenuto proprio dagli «emerging» e i problemi di debito sovrano e crescita sono tutti in casa dei Paesi più industrializzati. Quell'Occidente i cui listini hanno attraversato molti snodi: dall'attacco alle Twin Towers alla bolla dotcom; dallo tsunami subprime fino all'«onta» del downgrade di Washington. Un decennio di saliscendi che, alla fine, ha un consuntivo negativo. Tutto il contrario di ciò che è accaduto nei Paesi meno industrializzati.
L'Occidente in calo
Per rendersene conto basta confrontare le performance delle principali Borse mondiali. Wall Street, da inizio 2000 ad oggi, lascia sul parterre il 20,1% (il 43,9% in euro). Tokyo, dal canto suo, nel terzo millennio cede il 54,2% (58%). Male anche l'Europa: l'Eurostoxx 50 è in calo del 52,9 per cento. La stessa locomotiva tedesca segna il passo: il Dax 30 perde il 16,7 per cento. Meglio, comunque, della piazza milanese: qui la discesa è del 64,1 per cento.
La situazione si capovolge, completamente, volgendo lo sguardo ai listini dei Paesi emergenti. Il Micex di Mosca, dal 31/12/1999, fa segnare un balzo di oltre l'848 per cento. E che dire del Bovespa Brasiliano (+141% in euro) o del cinese Shangai Composite (+88,9% in valuta locale)? Non si scappa, il risultato è sempre quello: una performance positiva. Il mondo borsistico, insomma, è sotto-sopra.
Certo, può obiettarsi: riducendo l'arco di tempo considerato, il risultato cambia. La piazza di Francoforte, per esempio, dal 2005 ad oggi torna in positivo (+7,2%); analogamente al Nasdaq (+13% in dollari) e al Dow Jones (+4%). Nel solo 2011, poi, anche le lepri emergenti diventano tartarughe: a fronte di Wall Street che cede solo il 6,7%, la Borsa moscovita lascia sul parterre oltre il 14%, quella brasiliana il 23% e il listino coreano il 12,5 per cento.
Tuttavia, il risultato di fondo non cambia: «Se nel 2000 una persona avesse investito 100 unità di capitale sul listino russo - dice Maurizio Milano, responsabile ufficio studi analisi tecnica di Banca Sella -, oggi avrebbe in tasca un valore di 1.065 unità. Al contrario, con l'S&P, l'Eurostoxx 50 o il FtseMib sarebbe in perdita».
E qui, allora, salta fuori la domanda: quale benzina ha riempito il motore decennale delle Borse emergenti? «Questo macro-trend - risponde Antonio Cesarano, responsabile ufficio studi market strategy di Mps Cs - è stato sostenuto da un mix di fattori: in primis la forte crescita economica, peraltro rappresentata molto più dall'industria che dalla finanza». Incrementi del Pil, spesso ben oltre il 10% come per esempio in Cina, gli stati più industrializzati li hanno solo sognati. È vero, si dirà: la base di partenza era molto più bassa. Non può negarsi, però, che proprio Pechino è diventata la seconda potenza mondiale.
«Inoltre gli emerging market, come nel caso della Russia, dispongono di grandi quantità di materie prime: un atout fondamentale. Cui deve aggiungersi la quasi assenza di problemi sul fronte del debito pubblico e una popolazione, in generale, meno anziana di quella occidentale».
La leva demografica
Già, la popolazione. L'andamento demografico, a detta di molti esperti, è essenziale per capire il trend di lungo periodo delle Borse. Nel 2010 le persone con più di 65 anni nel mondo hanno superato quota 524 milioni (265 negli anni '80). Una forte crescita che «ha riguardato essenzialmente - spiega Antonio Golini, esperto di demografia e accademico dei Lincei - il mondo occidentale. Qui, seppure ogni Paese ha le sue particolari dinamiche, il basso livello di fecondità unito all'allungarsi della vita media (in sé un bene) ha ridotto il numero della popolazione attiva. Ebbene, sappiamo che il rapporto tra quest'ultima e quella totale è una variabile che influisce sul Prodotto interno lordo di uno Stato». E, in definitiva, sulla sua ricchezza economica.
«Questo sbilanciamento negli Stati industrializzati - fa da eco Milano - pone non pochi problemi. Questi devono, infatti, affrontare maggiori costi per sanità e pensioni. Oneri fissi che, giocoforza, si scaricano su una base lavorativa in diminuzione. Con il che, anche la produttività cala». In un simile contesto le Borse, che in qualche modo rispecchiano (o dovrebbero rispecchiare) la sottostante economia reale, alla fine offrono un saldo uguale a zero, oppure negativo. «È un Orso generazionale che colpisce i listini occidentali a favore di quelli degli emergenti».
Un mega trend che, sempre rispetto al fronte demografico, dovrebbe avvantaggiare Paesi come la Cina. «Pechino "vanta" una finestra demografica positiva» ricorda Golini. «Che, però, tra circa vent'anni si chiuderà». Vale a dire? «In quel Paese assisteremo ad un invecchiamento travolgente, conseguenza della politica del figlio unico portata avanti da regime». Quando accadrà la «palla passerà all'altro gigante dell'area: l'India».
Decoupling o non decoupling
Al di là della performance da inizio millennio, c'è però chi obbietta che proprio l'ultima parte del mega-trend, nel 2011, mostra ancora uno stretto legame tra gli emerging e gli Stati più industrializzati.
«Non vedo il decoupling» dice Mario Spreafico, direttore investimenti di Schroeder Italia. «Sulle Borse sono ancora i capitali occidentali a dettare le regole. Gli emergenti, ad eccezione forse della Cina, non hanno una struttura industriale-finanziaria così forte. Nel momento in cui le loro aspettative di crescita, sulla scia anche della paura del double-dip negli Usa, sono parse eccessive c'è stato l'out flow dei capitali».
E non è solo questione di aspettative. Da un lato, infatti, l'attuale avversione al rischio fa correre gli acquisti sui beni rifugio (dal Bund al franco svizzero fino all'oro); dall'altro, le barriere anti-inflazionistiche alzate dagli emergenti (in Brasile il costo del denaro è all'11,75%) scoraggiano gli investimenti in equity.
Insomma: sarà ben vero, come indica l'Institute of International Finance, che nel 2011 i capitali privati in entrata sugli Stati meno industrializzati saliranno a 1.041 miliardi di dollari. Tuttavia non può stupire che, proprio nella settimana scorsa, ci sia stato un maxi-riscatto (7,7 miliardi di dollari) dai fondi investiti sugli emerging.
«Ciò non toglie - ribatte Milano - che borse come Wall Street non hanno la forza per camminare con le proprie gambe. Sono sostenute dalla liquidità e dalla politica ultra-espansiva della Fed: gli utili aziendali, pur buoni, non sono sufficienti» se non c'è un'economia reale che sostiene la domanda aggregata. Anche perché, analogamente a quanto succede in Italia e in tutto l'Occidente, l'industria Usa ha spesso de-localizzato la produzione. Quindi, i dividendi arrivano sì nelle tasche degli azionisti, ma l'indotto, l'attività manifatturiera è negli Stati emergenti. I cui listini, decoupling o non decoupling, potranno sfruttare per tornare a salire.
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14/08/2011
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