Roma, 20 nov. - Il modello di sviluppo economico adottato dalla Cina negli ultimi trent'anni e comunemente noto come "socialismo di mercato" non ha favorito l'avvento della democrazia, confutando largamente la teoria formulata da Lipset nel 1959 secondo cui "la democrazia è correlata allo sviluppo economico". Questo il punto di partenza delle riflessioni tenutesi presso l'Università di Roma Tre nel corso della giornata di studio "Mercato senza democrazia. La Cina tra sviluppo economico ed evoluzione politica". L'iniziativa – "indotta" dalla successione di anniversari ricorrenti quest'anno, quali Piazza Tiananmen, i sessant'anni della RPC e la caduta del Muro di Berlino, cui hanno partecipato autorevoli esperti di numerose università italiane, tra cui Vittorio Emanuele Parsi (Università Cattolica del Sacro Cuore), Eugenio Somaini (Università degli Studi di Parma), Lilia Cavallari (Università degli Studi di Roma Tre), Guido Samarani (Università Cà Foscari di Venezia), Giuseppe Gabusi (Università degli Studi di Torino) – ha snocciolato l'argomento secondo una prospettiva interdisciplinare, evidenziandone gli aspetti storici, economici, di politica interna e internazionale.
"In una prospettiva storicistica, nei sessant'anni trascorsi dal 1949 a oggi, le continuità superano di gran lunga le discontinuità, ma questo non significa che non vi siano stati dei cambiamenti. Se si considera una trasformazione democratica nel senso occidentale del termine, il processo ha avuto sicuramente esito negativo; al contrario, se si prende in esame il meccanismo decisionale interno al PCC, si può riscontrare un positivo superamento di alcune strozzature" ha affermato il Professor Samarani nel suo ruolo di esperto di storia della Cina. Almeno per il momento quindi, tempi favorevoli per una forma di democrazia interna al Partito e prematuri per una democrazia del popolo, anche se "negli ultimi anni politologi e illustri membri dei più autorevoli think tank governativi cinesi – un esempio tra tutti, Yu Keping – accennano con sempre maggior frequenza al tema della democratizzazione e il fatto che la popolazione preferisca la certezza dell'oggi (il governo del PCC) all'incertezza del domani (democratizzazione) non preclude delle istanze divergenti" sottolinea il professore prima di chiudere il suo intervento.
Il quadro economico – di scontata rilevanza, poiché la legittimità politica del PCC affonda le proprie radici nella mirabile crescita economica di cui la leadership si è fatta promotrice – è stato curato dalla Professoressa Cavallari e dal Professor Gabusi, il quale ha analizzato le ragioni che hanno garantito il successo del "socialismo di mercato" riprendendo la tesi sostenuta nella sua recente pubblicazione "L'importazione del capitalismo. Il ruolo delle istituzioni nello sviluppo economico cinese" (edito da Aseri, Milano). Partendo dal presupposto che la Cina si è sviluppata in barba agli assunti del Post-Washington Consensus e avvalendosi degli strumenti della political economy per spiegare l'apparente paradosso cinese, il filo conduttore della sua teoria è l'osservazione della "particolare struttura clientelare costituitasi nel Paese di mezzo a partire dall'epoca delle riforme denghiste" e il punto d'arrivo è che "il PCC – nel ruolo di poltical residual claimant – ha progressivamente accumulato legittimità politica e benefici materiali, veicolando con successo l'importazione del capitalismo nella realtà cinese senza perdere il controllo sulla società, e riuscendo a costruire un modello di sviluppo capace di minare la bontà di quello propinato dalle organizzazioni multilaterali negli anni '90". Sull'amministrazione Hu-Wen, il Professor Gabusi si è espresso in questi termini: "all'insegna dello slogan della società armoniosa, Hu Jintao e Wen Jiabao prevengono gli umori della popolazione e, da quando hanno assunto la guida, promuovono nuovi patronati nelle regioni occidentali (Go West Policy); tuttavia trattasi di politiche "top down", non fiorite dalla voce del popolo. Seppur apparentemente vicini alle istanze del popolo (a tal punto che il Premier Wen Jiabao si è meritato l'affettuoso appellativo di "nonno" Wen) e in un certo senso più democratici, si muovono in realtà su una traiettoria fortemente autoritaria, a volte in contrasto con le preesistenti strutture clientelari". La Professoressa Cavallari ha invece dedicato ampio spazio agli effetti macroeconomici della crisi finanziaria scoppiata l'autunno scorso. Secondo quanto affermato dalla studiosa: "la crisi del 2008 ha prodotto tutta una serie di fattori (ad esempio: la fuga dei capitali, la diminuzione della domanda globale, l'innalzamento delle barriere protezionistiche nel commercio internazionale, il deprezzamento del dollaro) che sono solitamente responsabili del rallentamento della crescita delle economie trainate dalle esportazioni, come quella cinese. Tuttavia, contrariamente alle previsioni, grazie all'ingente piano di stimoli economici (del valore di circa 400 miliardi di euro) varato tempestivamente dalle autorità centrali nel novembre del 2008, la Cina è riuscita a risalire la china (già nel terzo trimestre del 2009 il valore del Pil cinese si attestava al +8,9%) e a uscire addirittura rafforzata poiché ha saputo sfruttare la congiuntura sfavorevole per stimolare i consumi interni, avviando quella riconversione industriale che i paesi stranieri auspicavano da tempo". Ciò detto, Pechino è ben lungi dal poter dormire sonni tranquilli poiché numerose insidie potrebbero sfoltire il consenso sociale di cui gode il Partito. "Il nodo più corposo che la leadership cinese deve prepararsi a risolvere non sarà l'economia reale, ma l'economia finanziaria. Il tallone d'Achille della ripresa cinese risiede nella debolezza dei sistemi bancario e finanziario e si riflette nella politica monetaria che, al posto di essere indipendente, risulta vincolata al potere politico e assertiva nei confronti del tasso di cambio fisso. Al contempo, altra questione spinosa cui la classe dirigente dovrà far fronte sarà la creazione di un sistema di welfare che riequilibri le diseguaglianze nella distribuzione dei benefici della crescita (differenza nel livello di sviluppo tra campagna/città, regioni della costa/regioni interne; sperequazione economica, eccetera)".
La descrizione degli scenari internazionali e del ruolo ricoperto dalla Cina nello scacchiere globale è stata appannaggio quasi esclusivo del Professor Parsi, il quale ha aperto il proprio intervento affermando che "la fine della Guerra Fredda non ha prodotto in Asia quei risultati disastrosi verificatisi invece in Europa. Il caso Cina è forse l'esempio più esaustivo: all'interno della classe dirigente non si sono verificate delle rotture e la RPC si è sostituita alla ROC nelle istituzioni internazionali, dimostrandosi un abilissimo giocatore pur non avendo precedente esperienza. Per il momento, consapevole dei propri limiti e debolezze (soft power e capacità di attrarre partner stabili ancora deboli, seppur in costante crescita grazie al network clientelare che la Cina sta tessendo negli ultimi anni forte del suo patrimonio economico) la Cina è incline al mantenimento dello status quo. Cosa succederà in futuro? L'approccio cinese nelle relazioni internazionali continuerà ad essere pacifico ed affidabile? In una parola, la Cina sarà un responsible stakeholder? Non disponiamo di prove per poterlo dimostrare e molto dipenderà dalla compatibilità degli interessi statunitensi e cinesi, qualora il Paese di centro diventasse una potenza egemone – innanzitutto – nell'area asiatica". Complice la recente visita del Presidente Obama in Cina, il rapporto tra Usa e Cina ha in seguito monopolizzato la piattaforma del dibattito. Secondo la lettura offerta dal Professor Parsi, "l'epoca del bipolarismo – nel suo estremo semplicismo – era fantastica. Oggi, al contrario, nelle relazioni internazionali ci sono diverse scacchiere su cui diversi player giocano contemporaneamente diverse partite. Come se non bastasse, le mosse su uno scacchiere si ripercuotono anche sulle altre. La governance globale è quindi un affare condiviso, in cui diversi attori ricoprono un ruolo chiave. Il binomio composto da Usa e Cina non è ancora in grado di risolvere in modo autonomo le problematiche globali e non lo sarà nel medio periodo. La Cina è indubbiamente un gigante economico, ma resta ancora afflitta da diversi problemi interni, come la sicurezza, le numerose minoranze etniche che mal tollerano il centralismo imposto dalla capitale, le crescenti richieste di partecipazione alla vita politica da parte della middle class di recente costituzione, le diseguaglianze nella distribuzione dei benefici dello sviluppo. E, sebbene la potenza della Cina stia crescendo mentre quella americana declinando, è quest'ultima a godere dello status di potenza di riferimento. Successivamente alla crisi, si è accentuata l'interdipendenza delle economie cinese e americana: francamente – tra creditore e debitore – è difficile stabilire chi tiene per le orecchie chi, ma di sicuro il potere cinese è ingigantito dalle aspettative e dalle insicurezze altrui".
Il contributo del Professor Somaini – autore di "La Geografia della Democrazia" (edizione Il Mulino) – ha ulteriormente corroborato la tesi che procrastina le tempistiche della democratizzazione della Cina. "Secondo uno studio statistico, l'80% dei paesi che hanno un reddito medio di 10mila dollari (90% dei paesi se si escludono quelli produttori di petrolio) si sono avvicinati alla democrazia. Sulla base della crescita media del Pil per capita, la Cina dovrebbe accostarsi alla democrazia in un arco temporale di circa vent'anni. Tuttavia, storicamente, scarseggiano i casi di Stati che sono diventati "grandi potenze" (come la Cina aspira a diventare) democratizzandosi e ridondano invece gli esempi contrari (democratizzazioni seguite da fasi di declino). I leader cinesi hanno vivo il ricordo dell'URSS e, probabilmente, ritardano il processo di democratizzazione per la consapevolezza che la svolta democratica favorirebbe lo sfaldamento di un paese in cui – ad eccezione della sfera politica – il potere non è così stabile e centralizzato. E, considerata la sovrapposizione delle élite politiche e economiche nella realtà cinese, dubito che si produrranno quelle pressioni – usualmente esercitate dai gruppi economici più influenti – per acquisire maggiore ruolo nell'arena politica. Sono altresì scettico che l'esempio di Taiwan possa incentivare la svolta democratica nella Cina continentale, soprattutto a causa della diversa estensione territoriale delle due realtà a confronto. Infine, un ulteriore aspetto a sfavore dell'evoluzione democratica della Cina è l'assenza del fattore religioso, che ha invece favorito la democratizzazione di numerosi paesi nella terza ondata di democratizzazione".
Numerosi gli interrogativi sulla strategia di sviluppo perseguita dall'amministrazione Hu-Wen e sulle prossime sfide cui dovrà rispondere la quinta generazione. Il Professor Samarani ha affermato che: "nel 2002-2003, quando Hu Jintao e Wen Jiabao hanno cominciato il loro incarico, hanno dovuto confrontarsi con le conseguenze della crescita economica. Il loro approccio, imperniato sul popolo, si potrebbe definire come "autoritarismo populista": mirabile sintesi di accentramento del controllo sullo stato e sulla società da parte del PCC (unico organismo preposto e legittimato alla guida del paese) e riequilibrio dei benefici economici tramite una strategia che non punta più meramente al Pil, ma che ingloba i concetti di società armoniosa e sviluppo scientifico". Infine, relativamente all'agenda della quinta generazione, ha elencato i seguenti quattro obiettivi come prioritari: riduzione delle diseguaglianze sociali generate dalla crescita economica, democratizzazione all'interno del PCC, rafforzamento del ruolo del Partito a livello locale, lotta alla corruzione".
Infine, se il Professor Somaini elogia "la genialità della classe dirigente cinese nell'aver incorporato un principio democratico all'interno dei meccanismi chiusi e autocratici del ricambio generazionale tra una leadership e l'altra" - riferendosi alla possibilità che i collaboratori di un leader "sconfitto" trovino spazio nell'amministrazione politica guidata dal leader "vincente" -, il Professor Samarani confuta puntualizzando come questa pratica "abbia saputo imprimere una solida direzione collettiva al PCC, minimizzando i rischi politici nei momenti di transizione". Samarani aggiunge inoltre, sempre sul tema dei ricambi al vertice della piramide gerarchica, che "apprezzabile è stato il ringiovanimento – non scontato – della classe politica e la sua trasformazione da classe militare a classe di tecnocrati, principalmente composta da ingegneri, avvocati e professionisti".
La giornata di studi ha offerto diversi altri spunti di riflessione. Rimane da dire che dessuno dei relatori ha considerato nella propria relazione il punto di vista della popolazione cinese. Considerando il ruolo chiave rivestito dal popolo in una formula di governo democratico, tante altre cose potrebbero essere dette.
Giulia Ziggiotti