Shanghai, 29 set. - Cina e finanza islamica, mai due realtà sono sembrate così lontane. La Cina non è, infatti, il primo paese a cui si pensa quando si parla di strumenti finanziari e servizi conformi alla Shari'a (la legge islamica), o almeno non lo è stato fino a qualche tempo fa. Prendendo il largo dai paesi arabi e del Golfo Persico, la finanza islamica ha colonizzato le piazze finanziarie delle grandi capitali economiche europee come Londra e Parigi, registrando tassi di incremento del 15 % annuo. Un occhio all'Asia non è mancato. Le economie emergenti del Sud Est Asiatico sono, infatti, guardate con un certo interesse dalle banche islamiche che fanno leva sulla Malesia e Singapore come apripista nell'area. La Cina per prima rappresenta un mercato interessante. Sebbene la chiusura del sistema bancario cinese alle banche straniere, in vigore fino al 2006, a cui si aggiunge la fama di scarsa trasparenza del sistema stesso, abbiano rappresentato motivi sufficienti a scoraggiare un intervento diretto di molti investitori stranieri nella terra di mezzo, le cose stanno cambiando. Complice la crisi finanziaria che ha colpito l'economia mondiale, portando all'emergere di nuovi attori e al ridisegnarsi di equilibri che spostano il baricentro economico e finanziario mondiale verso l'Asia e la Cina in particolare, gli investitori islamici, spaventati dal vento di protezionismo che tira in occidente, si sono rivolti alla Cina come uno sbocco interessante, e non solo per la vendita di petrolio e gas, di cui la terra di mezzo ha sempre più bisogno.
Tra i motivi all'origine di questa attrazione, oltre a un'economia che sembra aver retto ai contraccolpi delle crisi, l'esistenza di un mercato domestico immenso e relativamente ancora poco espolorato a cui va ad aggiungersi una variabile di natura culturale. L'ostilità congenita dei cinesi nei confronti del credito, rappresenta un elemento chiave per l'espandersi dei servizi e degli strumenti proposti dalla finanza islamica, anche al di là della precisa connotazione religiosa che esprimono. Infine la Cina vanta, nelle sue numerose province, una popolazione di religione musulmana che, secondo stime ufficiali rilasciate dal governo di Pechino, si aggira intorno ai 28 milioni di persone. Numeri questi ridimensionati in difetto giacchè a stime islamiche il totale dei musulmani residenti in territorio cinese risulti essere di 150 milioni, se si tiene conto che nel solo Xinjiang ci si assesta tra i 70 e i 90 milioni di persone. In un momento in cui a Pechino si è impegnati a ridisegnare le strategie di sviluppo del paese, anche la finanza islamica ha iniziato ad esercitare un certo appeal. Dopotutto, nel disastro provocato dai mutui sub prime, la finanza rispettosa dei principi coranici, con la sua enfasi sulla condivisione del rischio e del profitto tra le parti contraenti, oltre al divieto di fare speculazione o porre tassi di interesse, si è tenuta alla larga da pericolosi investimenti in strumenti finanziari come gli hedge funde derivati. Il profilo prudente degli investimenti islamici ha permesso agli organismi conformi al Corano di evitare i disastrosi rovesci o quantomeno a contenere i danni, che hanno invece colpito le omologhe istituzioni finanziarie occidentali. Questo è sembrato a molti analisti sufficiente per considerare gli investimenti halal (ovvero leciti) come una promettente alternativa per i mercati finanziari in cerca di maggiore stabilità e nuove regole a cui affidare la futura ripresa.
A dare i segnali più insistenti di un interesse esistente nei confronti della finanza islamica è stata per prima la piazza di Hong Kong. L'ex colonia britannica, infatti, si è negli ultimi anni proposta come piattaforma d'ingresso degli investimenti islamici nella regione e in particolare nella terraferma cinese, contendendo questo ruolo a realtà da anni attive nel campo come Singapore, Dubai e il Giappone. A confermare il fermento in corso sono i sempre più frequenti viaggi di delegazioni honkonghesi nei paesi arabi per promuovere le zone economiche speciali (ZES) cinesi come trampolino di lancio degli investimenti islamici nell'area. I primi fatti concreti risalgono al 2007 con il lancio da parte della Shamil Bank, originaria del Barhein, del Shamil China Realty Mudarabah per il valore di100 milioni di dollari. Si tratta del primo fondo di investimento immobiliare islamico nel mercato cinese. Per Mudarabah si intende una particolare tipologia di associazione fra imprenditore e banca simile alla nostra società in accomandita, dove una parte fornisce i fondi e l'altra gestisce l'investimento. Il fondo nasce da una joint venture tra la banca e il CITIC group, impresa statale e ha come oggetto progetti residenziali, commerciali ed industriali di alto livello. Oltre a vietare di investire in alcuni settori – quali le armi, la pornografia, il gioco d'azzardo e la produzione e vendita di alcolici e il tabacco -, la finanza conforme alla legge islamica predilige il finanziamento di attività tangibili e produttive come quelle nel settore immobiliare. Più recente è la nascita di un indice islamico (Hong Kong Islamic Index) che elenca le imprese rispettose della Sharia, costituitesi sull'isola ma attive anche nella Cina continentale e l'apertura del primo sportello bancario islamico e il permesso d vendere bond islamici in alcune filiali locali.
Dopo gli iniziali entusiasmi e i proclami politici che sono seguiti, i giochi per Hong Kong si sono rivelati più difficili del previsto. Dopo il via libero dato dalle autorità cinesi per una riforma della cornice legale e fiscale dell'isola, approvata in vista di un massiccio approdo della finanza islamica, e celebrata con l'annuncio del lancio sul mercato di obbligazioni islamiche (sukuk) da parte dell'autorità aeroportuale locale, le cose sembrano essersi arenate. Le procedure per attuare questo tipo di cambiamenti risultano lunghe e complicate, e il particolare sistema di governo dell'isola complica ulteriormente le cose. Quanto alla Cina continentale, l'interesse delle istituzioni cinesi nei confronti della finanza islamica si è di recente dimostrato in forma pubblica in occasione della sessione del Comitato Finanziario, riunitosi durante la Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese (CCPPC), organo privo di funzioni legislative ma rappresentativo di tutte le componenti politiche ed etniche della realtà cinese. In quell'occasione è stata , infatti, apertamente dichiarata la volontà di: "agevolare lo sviluppo della finanza islamica in Cina", adducendo come motivazione principale, il beneficio economico per il paese. Di li a poco, una delle maggiori banche cinesi, la People's Bank of China, ha fatto il suo ingresso come membro nell'Islamic Financial Services Board (IFSB), organismo internazionale con sede in Malesia, il cui scopo principale è di promuovere i prodotti finanziari coranici nell'area Asiatica.
Proprio dalla Malesia è arrivata l'assistenza necessaria per avviare un esperimento che mira a fare della città di Shenyang, capoluogo della provicia nord orientale del Liaoning, nel nord del paese, il primo hub islamico del paese. Qualcosa di simile sta avvenendo anche nella regione autonoma del Ningxia. Qualora gli esiti di tali sperimentazioni dovessero rivelarsi positivi, l'intenzione è quella di allargare l'esperienza ad altre zone del paese. Con queste premesse, sulle strade di questa nuova Via della Seta, che si allunga tra medioriente e Cina, molte sono gli elementi a favore di un connubio dagli sviluppi economicamente e politicamente imprevedibili.
di Nicoletta Ferro
Nicoletta Ferro è Senior researcher presso la Fondazione Eni Enrico Mattei
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