Sui mercati niente bolle pericolose
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Sui mercati niente bolle pericolose

Sui mercati niente bolle pericolose

Rialzi giustificati. Le quotazioni di azioni e obbligazioni non sono sostenute da un eccesso di liquidità ma dal miglioramento di fiducia e profitti
di lettura
di Fabrizio Galimberti
e Luca Paolazzi
Tassi d'interesse, valute, moneta
C'era da aspettarselo: appena i mercati hanno ripreso a tirare c'è chi grida all'untore: la bolla è dietro l'angolo, i tassi bassi incoraggiano i carry trade, le azioni vanno su solo perché spinte dalla immane liquidità che scroscia nella finanza mondiale da quando le banche centrali hanno fatto lavorare il torchio, fisico o elettronico che sia, per "stampare" moneta.
Questi timori sono esagerati, per almeno tre ragioni. La prima sta nel fatto che la ripresa dei mercati è ancora modesta: due anni fa, nell'ottobre del 2007, le quotazioni azionarie nel mondo avevano raggiunto un massimo storico e da quel massimo (vedi grafico) siamo ancora lontani un 25-35%. Anche nei paesi emergenti, in primis la Cina, dove la crisi è stata molto più lieve che nei paesi sviluppati, i mercati azionari sono ancora ben al di sotto delle vette conquistate allora. Nei paesi avanzati i prezzi delle azioni sono lontani dai livelli di due anni fa malgrado il fatto che il costo del danaro (dal prime rate americano ai tassi per le imprese in Europa) sia ben al di sotto di quello di allora e ciò rende il rapporto tra i rendimenti (yield ratio) molto più favorevole all'investimento azionario.
Secondo, è fisiologico che il pendolo dell'avversione al rischio, che era andato oscillando verso l'estremo del rifiuto, torni (come suggerito dagli spread fra i tassi corporate e quelli dei titoli di stato) verso livelli normali, favorendo così quelle attività più rischiose che erano state indebitamente penalizzate. Terzo, l'aumento dei prezzi di Borsa sembra essere in linea con l'aumento dei profitti; non c'è quindi bisogno di ricorrere alla spiegazione incentrata sul wall of money (la montagna di denaro) per giustificare il buon umore dei mercati azionari.
Un altro ricorrente timore per i pessimisti professionisti è quello di bolle e instabilità innescate dai carry trade: quelle operazioni per cui si prendono a prestito soldi là dove il danaro a breve costa poco, si vende poi quella valuta (spingendola quindi al ribasso) e si comperano valute dei paesi dove vigono tassi d'interesse più elevati. Se tutto va bene, si guadagna sia sui flussi (il differenziale di tassi) che sui fondi (la moneta in cui ci si indebita si svaluta). Questi carry trade vengono deprecati sia perché rischiano di innescare rovinose cadute del dollaro (oggi, come lo yen ieri, valuta di approvvigionamento per i carry traders), sia perché generano bolle delle attività nei Paesi verso cui si dirigono gli acquisti. I carry trade, tuttavia, sono operazioni rischiose: i guadagni nel breve e nel lungo possono essere negati – e trasformarsi in forti perdite – da relativamente piccole variazioni nei cambi. Il problema non è nel differenziale dei tassi, non è nel ritorno sul capitale, ma nel ritorno del capitale. Ed è poco probabile che, all'indomani di una crisi epocale che ha rivelato tante linee di faglia della finanza, l'appetito al rischio sia tornato a quei livelli parossistici che avevano istigato tante avventure finanziarie.
Il dollaro ha già dato prova, nella seconda metà del 2008, di rafforzarsi contro tutte le attese, e, anche se oggi si trova sulla difensiva, non mancano i fondamentali – principalmente i differenziali di crescita – che favoriscono la tenuta di fondo di una valuta che non sarà facilmente scalzata dal ruolo di moneta di riserva. Preoccupa invece che lo yuan continui a rimanere legato, come edera tenace, alla moneta americana, rivalutandosi quindi contro l'euro, ciò che certo non corrisponde agli auspici ripetuti in tutte le sedi internazionali: se la Cina, come di fatto sta facendo, si assume un ruolo di locomotiva, deve dar priorità agli stimoli alla domanda interna, e un ingrediente essenziale di questi pungoli è una rivalutazione dello yuan che valga a incoraggiare le importazioni del sub-continente. I non deliverable forward a 12 mesi continuano a segnalare un futuro apprezzamento, ma modesto, dell'ordine del tre per cento.
Indicatori reali
La ripresa non è come una foglia «d'autunno sugli alberi». E anzi l'avvio dell'ultima parte dell'anno ha portato segnali di conferma rassicurante della svolta maturata in estate, quando tutte le maggiori economie hanno registrato corposi incrementi del Pil (già annunciati o attesi). Man mano che il recupero prosegue, consolida la fiducia e mette in moto aspettative autoavverantisi, analoghe seppur di segno opposto a quelle che hanno avvitato la peggior recessione in tempi di pace degli ultimi 80 anni.
Ciò non significa che il rimbalzo sarà altrettanto vertiginoso quanto lo è stata la caduta, perché questa ha messo in modo reazioni comportamentali che si trascinano nel tempo (aggiustamenti nel mercato del lavoro, ristrutturazioni di imprese, abbassamento del Pil potenziale) e perché i nodi nella finanza non si sono sciolti e le condizioni del credito, nonostante tassi ai minimi della storia delle banche centrali, restano restrittive e tenderanno a peggiorare assieme ai bilanci dei debitori e alle sofferenze bancarie. Ma lasciamo la parola alle rassicuranti statistiche congiunturali.
Dopo il deciso rimbalzo nel terzo trimestre (+3,5% annualizzato il Pil Usa e forse qualcosa di più in alcune nazioni europee; di certo in Cina, con +10,2%), il quarto è partito con minor slancio e maggiore differenziazione tra Paesi. La produzione industriale, per esempio, mostra minor brio in Italia (+3,3% in settembre dal minimo di marzo, -1,8% il trascinamento per il quarto trimestre), che in Francia (+4,5% dal minimo di aprile, -0,1% il trascinamento) e Germania (+10,3% sempre da aprile, +2,5% il trascinamento). Ma le attese di produzione delle imprese italiane promettono un rimbalzo più deciso nei prossimi mesi. Anche nel PMI del manifatturiero si notano forti differenze: in Usa a ottobre è salito ai livelli più alti dall'aprile 2006 (perfino la componente occupazione è tornata positiva); mentre in Eurolandia ha superato la fatidica soglia 50 solo il mese scorso, dopo 16 di contrazione.
Guardando più in là, l'indice anticipatore Ocse punta a una crescita che prosegue e si rafforza nella prima metà del 2010. È salito ancora a settembre (+1,3% su agosto e +3,4% su settembre 2008) e disegna un quadro di ripresa per l'insieme dei paesi avanzati e i Bric. È sicuramente affidabile nel tracciare le svolte cicliche e quindi nel messaggio positivo di ripresa che si consolida e tende a diventare auto sostenibile. Va preso con le molle per valutarne l'intensità, perché è "tarato" sul tasso di crescita potenziale e quanto più quest'ultimo era basso prima della crisi (vedi il caso italiano), tanto più la risalita dopo la discesa ardita (e catastrofica) dell'attività economica a cavallo tra 2008 e 2009 lo fa schizzare verso l'alto. Non si può perciò desumere dal suo andamento chi è in testa e chi è in coda alla ripresa e soprattutto chi uscirà più forte o più fragile dalla crisi.
Negli Stati Uniti l'altra faccia della medaglia del calo delle ore lavorate sono i guadagni di produttività (+9,5% annualizzato nel terzo trimestre sul secondo, +4,3% su un anno prima); ciò fa salire la redditività delle imprese e prepara il terreno per il rilancio degli investimenti.
Inflazione
I corsi delle materie prime nell'ultimo mese si sono stabilizzati sui valori massimi da oltre un anno e cominciano a mostrare variazioni tendenziali positive che diverranno più nette man mano che il confronto avverrà con i valori minimi raggiunti lo scorso inverno. Ciò si riverbererà anche nei numeri dell'inflazione al consumo, il cui aumento sarà però un effetto statistico. Un fuoco di paglia che non basta ad accendere spirali inflattive, finché nel mondo ci sarà tanta capacità inutilizzata.
fabrizio@bigpond.net.au
l.paolazzi@confindustria.it

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TASSI E BOLLE
La liquidità creata dalle banche centrali giace ancora inoperosa e i rialzi dei mercati non sono dovuti ai carry trade (indebitarsi in valute a tassi bassi e investire in valute a tassi alti) ma all'aumento dei profitti legato alla ripresa.

ALTRE PROVE DI EXIT
Le strategie di uscita – ha detto bene il Fmi – riguardano per l'80% i bilanci pubblici. Ma sul lato monetario (l'altro 20%) si moltiplicano i fatti – anche la Norvegia ha aumentato i tassi, dopo Australia (due volte) e Israele – e i pronunciamenti, sia da parte Fed che da parte Bce.

CONFERME DI RIPRESA
Occupazione e disoccupazione sono indicatori ritardati, e le cattive notizie da quella parte non sono finite. Ma gli indicatori anticipatori sono ottimistici e corali. Il terzo trimestre ha visto un ritorno di segni positivi in America, e anche Europa e Italia vedranno la svolta.

TASSI IN ATTESA
La politica monetaria ha messo l'autopilota. I tassi-guida sono sul basso-stabile, finché i venti contrari della crisi continuino a mantenere il livello di attività lontano dal potenziale. E i tassi a lunga sono fermi, con qualche riduzione di quelli corporate, in linea con un minor rischio per l'economia.

13/11/2009
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