Sudan, liberati i lavoratori sequestrati

di Sonia Montrella
Roma, 7 feb.- Sono stati liberati i 29 lavoratori cinesi rapiti in Sudan alla fine di gennaio da un gruppo di ribelli nel Sud Kordofan. Lo ha riferito l'agenzia di stampa Xinhua secondo cui ieri sera è stato ritrovato anche il corpo senza vita di uno dei lavoratori sfuggito all'attacco e di cui si erano perse le tracce. L'uomo sarebbe stato colpito da un proiettile nel corso dell'attacco al cantiere di Sinohydro Corp. Ltd, avvenuto il 28 gennaio vicino alla città di Al-Abbasiya dove i cinesi stavano lavorando alla costruzione di una strada. Quel giorno al cantiere "c'erano in tutto 47 operai: 29 sono stati rapiti e 18 sono riusciti a fuggire dei quali 17 sono stati trovati e portati in un luogo sicuro dall'esercito sudanese" riferì l'ambasciata cinese in Sudan all'indomani dell'attacco (questo articolo). Dell'altro scomparso nessuno ha più avuto notizia fino a ieri sera. La salma dell'uomo, assicurano le autorità sudanesi, sarà riconsegnata presto alla Cina.
La liberazione degli ostaggi, si legge sulla Xinhua, è stata resa possibile grazie all'intervento del Comitato Internazionale della Croce Rossa. L'associazione avrebbe fatto da intermediario tra i funzionari della capitale Khartoum e l'Esercito popolare di Liberazione sudanese, gruppo armato ribelle e separatista i cui membri appartengono all'etnia che controlla gran parte del Sud Sudan, divenuto indipendente dal Sudan appena sei mesi fa.
Appena sette giorni fa, nel Sinai centrale 25 cinesi tra ingegneri, tecnici e un traduttore dipendenti di una fabbrica di cemento, di proprietà dell'Esercito e situata nell'area di Lehfen, sono stati sequestrati e poi rilasciati il giorno seguente da un gruppo di beduini. In cambio della liberazione, i ribelli chiedevano la scarcerazione di cinque membri della tribù arrestati in seguito agli attentati nel Mar Rosso del 2004 e del 2006 a Sharm el-Sheikh, Taba e Dahab.
Mentre decine di migliaia di cinesi ogni anno emigrano all'estero per lavorare nelle fabbriche del Dragone, Pechino si ritrova a far fronte a una doppia emergenza: da un lato deve assicurare la sicurezza dei suoi cittadini, dall'altro i continui incidenti ai danni dei lavoratori cinesi rischiano di incrinare la fiducia dell'opinione pubblica interna nei confronti dei leader. Non solo. Quello dell'incolumità dei cinesi all'estero si profila come un problema tanto più grave quanto imbarazzante per un paese che vuole dar prova al mondo della sua efficienza. "Ci sono cinesi sequestrati in Sudan, detenuti in Egitto, malmenati in Corea del Sud e assassinati nel Mekong. Come è possibile tutto ciò?" scrive sul Twitter cinese Sina.Weibo, Wei Daofu pilota di auto da corsa.
E come lui se lo chiedono in molti, persone comuni ed esperti che si interrogano sui rischi corsi da tutti quei lavoratori che Pechino invia in alcune delle aree più turbolente del mondo, quali Sudan, Iran, Asia centrale, Pakistan e Myanmar. E in queste aree il Dragone, in cambio di energia, ha avviato progetti per lo sviluppo agricolo, industriale e per la costruzione di infrastrutture, collegamenti, aeroporti per la cui realizzazione le compagnie semi-statali cinesi tendono a inviare forza lavoro dalla madrepatria anziché assumere personale del luogo. Un approccio che se da una assicura risultati nel più breve tempo possibile, dall'altro estranea la popolazione locale mettendo a rischio la vita dei cinesi. Secondo Neil Ashdown, analista per l'Asia e il Pacifico presso la società di consulenza con base a Londra IHS Global Insight, in percentuale le aziende cinesi inviano all'estero molti più lavoratori di quanto facciano quelle occidentali. La maggior parte di questi verrà poi raggiunto dal resto della famiglia. Solo nel 2010 60 milioni di cinesi si sono trasferiti all'estero, cui si sono aggiunti l'anno scorso altri 75 milioni. E per molti osservatori, queste persone non hanno alcuna tutela, né da parte dello stato, né delle compagnie che scelgono di operare in zone 'infiammabili' perché quelle più sicure sono state monopolizzate dalle società occidentali.
"La questione non è nuova, specialmente quando si tratta di Paesi africani o asiatici" spiega Zhu Feng, esperto di affari internazionali dell'Università di Pechino. "Il problema è che è diventato sempre più frequente che i lavoratori cinesi vengano presi d'ostaggio da gruppi militanti o forze armate che li usano come arma di ricatto per stringere accordi con i governi locali, o semplicemente per rendere più efficace la loro protesta".
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