Roma, 22 ott. – Questa volta a scendere in piazza contro il governo di Pechino sono migliaia di studenti che vivono nella regione del Qinghai, nel nord-ovest della Cina. E il pensiero torna immediatamente alla rivolta del marzo 2008, quando alcuni monaci tibetani si erano scontrati con le autorità cinesi mettendo fortemente in imbarazzo il governo di Pechino che si preparava alle Olimpiadi. Ad innescare le proteste è stata questa volta una nuova riforma scolastica che il governo starebbe per approvare e che prevede che tutti gli insegnamenti vengano impartiti in cinese mandarino, la lingua ufficiale della Repubblica Popolare. Il governo avrebbe inoltre intenzione di disporre che tutti i libri di testo siano redatti nella lingua ufficiale, fatta eccezione per quelli riservati all'apprendimento della lingua tibetana e inglese. Nei giorni scorsi, secondo quanto reso noto da Free Tibet - movimento con sede a Londra che da anni si batte per l'indipendenza della regione -, migliaia di studenti delle scuole medie si sono riversati sulle strade per protestare contro quello che reputano l'ennesimo tentativo di affossare la cultura tradizionale tibetana.
Mentre le autorità locali negano qualsiasi tipo di protesta, Free Tibet riferisce che il movimento è partito martedì scorso dalla prefettura autonoma di Malho, nel Qinghai, e si è poi diffusa in altre città. Giovedì quattro scuole di Chabcha, nella prefettura di Tsolho (Qinghai), hanno marciato verso il palazzo del governo locale al canto di "libertà per la lingua tibetana", ma sono stati poi respinti e dissuasi dalle forze dell'ordine e dagli insegnanti. La stessa situazione si è verificata nella città di Dawu, nella prefettura tibetana di Golog (sempre nella provincia del Qinghai), dove la polizia locale ha imposto ai residenti il divieto di uscire per le strade, anche se al momento non è stato segnalato nessun atto di violenza. Fino ad oggi l'insegnamento nelle scuole del Qinghai è stato in due lingue, tibetano e cinese, ma stando a quanto riportato, a innescare la miccia sono state le dichiarazioni del presidente del Comitato del Partito della provincia, Qiang Wei, che circa un mese fa dalle pagine del giornale di partito, auspicava l'utilizzo del "putonghua" - la "lingua comune", vale a dire il mandarino - nelle scuole.
Un ex insegnante di Tongren, località all'estrema periferia dell'altopiano tibetano, ha affermato che le riforme imposte in campo scolastico hanno fatto riaffiorare il ricordo della Rivoluzione Culturale e che l'obbligo del cinese mandarino a scuola è una minaccia alla lingua tibetana e una violazione della Costituzione cinese che, ha aggiunto l'ex docente, dovrebbe al contrario proteggere i diritti del popolo tibetano. Free Tibet sostiene che l'uso del tibetano sta venendo sistematicamente scoraggiato per cementificare la presenza cinese nell'area. La provincia del Qinghai, infatti, seppure al di fuori dei confini tibetani, condivide con la regione la lingua e le tradizioni culturali ma non gode dello stesso status amministrativo speciale di cui gode il Tibet, definito regione autonoma e dotato pertanto di una amministrazione a sè.
La Repubblica Popolare ha istituito cinque grandi regioni autonome per quelle aree in cui è particolarmente forte - in termini numerici - la presenza di gruppi etnici diversi da quello Han (che costituisce il 92% circa della popolazione totale del Paese), ma i detrattori lamentano il fatto che questa autonomia sia in realtà solo apparente e che il controllo di Pechino sia molto più rigido di quanto si voglia far sembrare.
di Emanuela Videa
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