Sorpresa, il liberismo è made in Pechino
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Sorpresa, il liberismo è made in Pechino

Sorpresa, il liberismo è made in Pechino

Parentele culturali
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Wei wu wei, insegnava Lao Tzu: fare senza fare. È la via della spontaneità, dell'azione senza sforzo, del lasciar andare: uno dei capisaldi del taoismo, che ha intriso di sé tutta la cultura cinese, anche quella confuciana, più rigida e formale. «Nel mondo si accumulano divieti e la gente si impoverisce» dice il Tao te Ching, «L'ordine nasce spontaneamente dalle cose quando sono lasciate sole», aggiunge il Zhuangzi.
Laissez faire, insegnava invece - sulla scia del mercante Le Gendre - François Quesnay, il medico che nel Settecento descrisse un primo modello economico nel suo Tableau économique e che ai suoi tempi era chiamato il Confucio d'Europa per la sua passione per la Cina.
Il legame è diretto. C'è il taoismo cinese dietro l'immagine dei mercati che, lasciati a se stessi, trovano un ordine spontaneo. Un'idea che si è poi incrociata con un'altra corrente di pensiero, che trova origine nelle orazioni del retore greco del quarto secolo Libanius ed è stata riscoperta nel Seicento da Ugo Grozio: quella che - con meno pretese - loda il libero commercio come strumento di vantaggio reciproco e di pace tra i popoli. Il punto di incontro di questa «rete euroasiatica», come la chiama Christian Gerlach in uno studio per la London School of Economics, è stato Adam Smith, di cui è diventata famosa - e abusata - la metafora della mano invisibile.
Molto è stato costruito su questa idea del mercato "naturale", da non disturbare. Si è giunti a risultati importanti, come la dimostrazione matematica che esiste davvero un insieme di prezzi che mette in equilibrio, in modo efficiente, domanda e offerta di ciascun bene e spiega a quali, stringenti, condizioni questo accade.
L'immagine dell'ordine spontaneo è però davvero centrale nell'opera di Friedrich von Hayek, che amava citare proprio Lao Tzu: «Se non mi intrometto, il popolo si prende cura di sé, se non comando, il popolo si corregge da solo, se non mi impongo, il popolo diventa se stesso». L'idea, anch'essa molto feconda, di Hayek spiega che il mercato spontaneo è un meccanismo, migliore di qualunque computer, in grado di elaborare quantità enormi di informazioni provenienti da qualunque parte del mondo e di trasformarle in un solo segnale, il prezzo. Alterare questo sistema sarebbe - diremmo oggi - come inserire un virus nel software del mercato, per lanciare messaggi "falsi".
Hayek, teorico della complessità, sapeva bene però che l'affascinante filosofia taoista si rivolgeva agli individui e immaginava società semplici: l'ideale di Lao Tzu è un piccolo villaggio isolato, dove nessuno «perde tempo a inventare macchine che usino meno lavoro» e si rinuncia alla tecnologia perché anch'essa altera la spontaneità. Hayek, come molti altri economisti dopo lo stesso Adam Smith, non nascondeva il fatto che il mercato è un meccanismo vulnerabile e che molti fattori - magari altrettanto "spontanei" - possono far funzionare male quel delicato "computer virtuale dei prezzi". Anche le aziende, che sicuramente non amano e non cercano la concorrenza e, come ha mostrato il Nobel Ronald Coase, nascono dove il mercato non c'è, perché troppo costoso per emergere.
È allora ancora adeguata quell'antica immagine taoista? La realtà del mercato non è il dominio della spontaneità: è il luogo dove si scambiano diritti, non beni. È quindi costituito da un tessuto di regole, consuetudinarie, contrattuali ma anche giurisdizionali o statali, che in ogni momento possono diventare inadeguate. Può davvero sorprendere che non sia sempre garantito un ordine spontaneo? Che non si possa sperare in una mano provvidenziale che spinga il mondo proprio verso l'equilibrio? E che non sia più possibile la retorica e la politica della deregulation, l'idea che "abolire le regole" migliori il sistema?
No, il wei wu wei non basta più. Non è però morto il valore di un sistema economico policentrico, senza gerarchie predefinite, in cui si crei con la concorrenza quello stesso meccanismo di check and balances dei sistemi politici liberaldemocratici, con un potere economico diffuso, senza monopoli e rendite, con libertà (e facilità) d'ingresso delle nuove iniziative, che permetta ai prezzi di lanciare i segnali giusti, e non sia "forzato" dall'alto su posizioni inevitabilmente irrealistiche.
Se però il sistema economico - come spiegava nel 1934 Henry Simons, uno degli animatori della prima scuola di Chicago - si rivela «artificiale» e non spontaneo, fondato come è dalle regole e dominato da «creature legali» come le corporations, le società, non è assurdo pensare a una "politica positiva di laissez faire". Positiva e non negativa: perché, diceva l'economista americano, il liberismo non può più coincidere con il «non far nulla». Quando Simons scriveva, gli Stati Uniti erano ancora in crisi, era ancora aperta la ferita dei debiti e si chiedevano a gran voce interventi governativi. Più o meno come oggi. Al posto di decisioni discrezionali - tipiche dell'azione di governo e fonte di "fallimenti dello stato" - l'economista propose allora nuove regole. L'obiettivo era quello di "creare" mercati che funzionassero, che garantissero il funzionamento del sistema dei prezzi, che assicurassero la libertà degli individui (molto meno, invece, quella delle "persone giuridiche").
Simons indicava così un metodo: quasi sempre parla di contratti. I suoi bersagli polemici, gli ostacoli al meccanismo dei prezzi, sono alcuni interventi governativi ma anche le aziende giganti (alle quali vorrebbe vietare l'acquisto di azioni...), la pubblicità e, sul mercato finanziario, i debiti a breve termine, simili alla moneta. È stato lui il primo sostenitore della separazione tra banche commerciali e di investimento, e dell'adozione di regole per la politica monetaria; ed è arrivato a riconciliare libertà ed eguaglianza, perché «libertà fondamentale è quella di uomini con uguale potere» e il mercato ha bisogno di entrambe le cose. Una lezione che il neoliberalismo ha poi dimenticato.
È in questa saggezza moderna, nata nella Grande Crisi, che l'economia e la politica devono trovare ispirazione. Lasciando che l'antico taoismo illumini solo l'immaginazione. È vero: senza l'ideale dell'ordine spontaneo trovare le regole giuste - semplici e poco costose... - diventa un lavoro difficile, lento, da compiere per tentativi ed errori, magari mettendo in concorrenza sistemi diversi. Nessuno può però pensare che possa mai essere altrimenti.
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02/02/2011
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