Sono ancora 29 i cinesi rapiti nel Sudan

Pechino, 30 gen. - Per Pechino l'elenco dei prigionieri cinesi in Sudan non si assottiglia: i 29 operai sequestrati domenica sono ancora tutti nelle mani di un gruppo di ribelli nel Sud Kordofan. Lo riporta l'agenzia di stampa Xinhua citando l'ambasciata cinese in Sudan secondo cui 17 lavoratori sono stati "spostati in un luogo sicuro dall'esercito sudanese", mentre "gli altri 29 sono ancora nelle mani dei ribelli". Secondo la versione dell'ambasciata, che sostiene di aver perso qualsiasi collegamento con i sequestrati, quando i ribelli hanno attaccato il cantiere di Sinohydro Corp. Ltd, vicino alla città di Al-Abbasiya, "c'erano in tutto 47 operai: 29 sono stati rapiti e 18 sono riusciti a fuggire dei quali 17 sono stati trovati e portati in un luogo sicuro dall'esercito sudanese. L'altro risulta ancora scomparso".
La Cina smentisce dunque la notizia data dal governo sudanese secondo cui l'esercito di Khartoum era riuscito a liberare 14 lavoratori. Il gruppo che ha sequestrato gli operai che stavano lavorando alla costruzione di una strada, il Movimento Popolare per la Liberazione del Sudan/Settore Nord (SPLM-N), aveva detto che i cinesi erano stati presi in custodia "per la loro salvaguardia" perché intrappolati, sabato, in una battaglia tra i ribelli e l'esercito del Sudan. Ma la situazione al momento rimane confusa.
Intanto la cattura dei connazionali ha scosso l'opinione pubblica cinese che si interroga sui rischi corsi dai sempre più numerosi lavoratori inviati da Pechino in alcune delle aree più turbolente del monde: "Non è affatto semplice per un cinese cercare di guadagnare qualche soldo" scrive un utente su Sina.Weibo, foro virtuale che 'ospita' i dibattiti della società cinese. Il Sud Kordofan - area di maggiore produzione petrolifera del Paese - si è trasformato in un vero e proprio campo di battaglia tra il governo sudanese e i ribelli in vista della separazione tra la repubblica del Sudan e il Sud Sudan avvenuta lo scorso 9 luglio. I due governi, ai ferri corti su una serie di questioni tra cui gli introiti petroliferi, si scambiano regolarmente accuse di sobillare le insurrezioni, l'uno nel territorio dell'altro. E sebbene il Sud Sudan neghi le accuse, molti analisti ritengono che il Paese fornisca armi ai ribelli dell'SPLM-N: uno dei movimenti guerriglieri che opera nella zona al confine e che si batte per rovesciare il presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir e il predominio delle elite politiche di Khartoum.
In questo quadro si inserisce anche Pechino, alleata di Khartoum di vecchia data nonostante le critiche sulla violazione dei diritti umani mosse dalle potenze occidentali e il mandato di cattura per crimini di guerra e crimini contro l'umanità spiccato dalla Corte Penale Internazionale contro il presidente sudanese Omar al-Bashir. E proprio nel Paese, il Dragone ha investito in modo massiccio: "Come maggiore acquirente di petrolio sudanese, recentemente la Cina ha incrementato i progetti per la realizzazione di infrastrutture, e per lo sviluppo agricolo e industriale" ha spiegato He Wenping, direttrice del dipartimento per la sezione Africa dell'Istituto per gli studi africani e occidentali dell'Accademia cinese di scienze sociali (CASS), il più importante think-tank del governo di Pechino. A portare il Dragone nel Paese africano è soprattutto la fame energetica. Proprio lo scorso anno la Cina ha aperto una rappresentanza diplomatica a Juba, capitale del Sud Sudan che custodisce la maggior parte delle riserve petrolifere del Paese ormai spaccato in due. L'oleodotto che pompa il petrolio dal sud verso il nord e lo distribuisce in Cina e in altri mercati è stato costruito da China National Petroleum Corporation, che vanta diritti anche su altri giacimenti che dopo il 9 luglio rimarranno comunque sotto il controllo di Khartoum. Secondo l'Agenzia Internazionale per l'Energia, il Sudan rappresenta per la Cina uno dei primi 10 fornitori di greggio, mentre un rapporto del Congressional Research Service americano circa il 60% del petrolio sudanese viene acquistato dal Dragone.
Autostrade, ponti, aeroporti e dighe: negli ultimi anni il Dragone si è affermato come principale investitore e costruttore dell'Africa sub-Sahariana e di tutte quelle regioni in via di sviluppo che le società occidentali evitano. E per la realizzazione di questi progetti le compagnie semi-statali cinesi tendono a inviare forza lavoro dalla madrepatria anziché assumere personale del luogo: un approccio che se da una assicura risultati nel più breve tempo possibile, dall'altro estranea la popolazione locale mettendo a rischio la vita dei cinesi. Secondo Neil Ashdown, analista per l'Asia e il Pacifico presso la società di consulenza con base a Londra IHS Global Insight, in percentuale le aziende cinesi inviano all'estero molti più lavoratori di quanto facciano quelle occidentali. La maggior parte di questi lavoratori verrà poi raggiunto dal resto della famiglia con il risultato che Pechino si ritrova a gestire un sempre maggior numero di cittadini in aree fortemente a rischio. Nel caso del Sudan, ad esempio, secondo stime ufficiali sono circa 15mila i cinesi che vi lavorano.
Ma forse, ancora più dei numeri, a dissipare ogni dubbio sull'influenza cinese in Africa è il nuovo quartier generale dell'Unione Africana sorto nella capitale etiope Addis Ababa e inaugurato proprio in questi giorni in occasione del vertice che vede riuniti i leader di tutte le nazioni africane, ad eccezione del Marocco . Un 'dono' da 200 milioni di dollari da parte del Dragone e realizzato in due anni e mezzo: "Questo enorme complesso la dice lunga sulla nostra amicizia verso il popolo africano e testimonia la nostra determinazione ad aiutare lo sviluppo dell'Africa", ha riferito Jia Qinglin, membro del comitato permanente dell'ufficio politico del Partito comunista cinese, prima di passare a snocciolare le cifre della partnership: "la Cina è il più grande partner commerciale dell'Africa con un interscambio di 150 miliardi di dollari, il 10% dei nostri scambi commerciali. Abbiamo investito in Africa 13 miliardi e oltre 2.000 società cinesi sono attive nel continente".
di Sonia Montrella
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