di Eugenio Buzzetti
Pechino, 28 nov. - A poco più di un mese dalla conclusione del diciannovesimo Congresso del Partito Comunista Cinese, la città di Pechino torna sotto i riflettori. Questa volta non sono le aule ovattate della politica a riempire le pagine dei quotidiani, ma le vie dei distretti più lontani dal cuore politico e storico della capitale, al centro di una campagna di ispezioni sulla sicurezza delle abitazioni non in regola che ha comportato decine di migliaia di sfratti per i lavoratori migranti, proprio mentre le temperature nella capitale scendevano sotto lo zero. Le ispezioni sono partite dopo che un incendio aveva provocato 19 morti in un palazzo a Xihongmen, nel distretto meridionale di Daxing, e aveva riaperto il problema della sicurezza nelle case delle aree più disagiate, abitate soprattutto da lavoratori migranti.
La campagna di ispezioni ha provocato polemiche sulla capitale e sui suoi vertici. A prendere le difese degli abitanti costretti a lasciare nel giro di pochi giorni le loro case si è schierato il giornale più agguerrito della Cina, il tabloid Global Times, noto per i suoi editoriali al vetriolo sui temi di politica estera, che in questa occasione non ha esitato a tirare le orecchie all'amministrazione di Pechino per il trattamento riservato a una parte della popolazione. "Con temperature così fredde, gli sfrattati troveranno un nuovo posto in un paio di giorni? Anche se tornassero nelle loro città di provenienza, sarebbe difficile trovare una sistemazione in un lasso di tempo così breve", scrive il giornale, spin off del Quotidiano del Popolo, organo di stampa del Partito Comunista Cinese. Il Global Times non critica la campagna in sé ("apparentemente la cosa giusta da fare", dopo l'incendio) ma le modalità con cui è stata compiuta e gli effetti che ha prodotto. "Non è ragionevole che Pechino chiuda le porte a chi viene da fuori", prosegue il giornale, che descrive la capitale come una delle città più aperte della Cina, e che storicamente deve molto alla presenza di lavoratori migranti per il proprio sviluppo.
Pechino è al centro di un nuovo piano regolatore, presentato nelle settimane che ha preceduto l'appuntamento politico del mese scorso, e che vedrà una massiccia riorganizzazione della città (già visibile in molte aree): uno degli obiettivi è quello di contenere il numero di abitanti, che non dovrà superare i 23 milioni dai 21,7 milioni attuali, secondo le cifre diffuse a settembre scorso. Pechino punta a diventare una vetrina, capitale culturale oltreché politica della Cina, dove i grandi gruppi hanno le loro sedi principali, e per farlo la municipalità intende demolire 40 milioni di metri quadrati di abitazioni illegali già entro la fine del 2017. Secondo i più critici, con l'incendio di Daxing, il piano di sgomberi e demolizioni ha preso un'accelerazione grazie alla scusa della sicurezza. Per riparare al danno sociale, l'amministrazione di Xihongmen ha messo a disposizione abitazioni temporanee per gli sfrattati e ha distribuito biglietti del treno per coloro che, invece, vogliono ritornare nei loro centri di provenienza. Sulla vicenda, nelle scorse ore, è intervenuto anche il segretario del partito di Pechino, Cai Qi, promosso il mese scorso tra i venticinque dirigenti del Politburo del partito. Cai ha detto che occorre dare tempo agli sfrattati di sgombrare e che la campagna lanciata dalle autorità non deve essere condotta in modo semplicistico e frettoloso. "Dobbiamo prestare attenzione al lato umanitario e aiutare chi è in difficoltà", ha dichiarato il capo del partito della capitale in frasi riprese dal quotidiano Beijing Daily. Parole di buon senso, anche se tardive, per rispondere a una situazione fortemente criticata anche da una lettera di protesta ai vertici della capitale firmata da oltre cento intellettuali che definiscono l'accaduto "una grave violazione dei diritti umani". A travolgere Pechino, però, è intervenuto anche un altro scandalo nei giorni scorsi che ha destato una forte indignazione non solo nella capitale cinese.
Settimana scorsa, Pechino ha fatto notizia in tutta la Cina per lo scandalo di maltrattamenti ai danni di bambini dai due ai sei anni da parte di tre insegnanti, in seguito sospese, dalla Ryb Education Institution, nel distretto di Chaoyang, sul versante orientale di Pechino, una delle aree più sviluppate della capitale. Lo scandalo aveva provocato forti proteste di fronte ai cancelli della scuola da parte dei genitori, che avevano chiesto ai dirigenti scolastici di vedere i filmati delle telecamere di sicurezza. Dopo la diffusione della notizia, il Ministero dell'Educazione aveva lanciato una campagna di ispezione sulla gestione degli istituti scolastici, ma le accuse di abusi sui più piccoli non si sono fermate: anche un altro istituto, lo Huanyu, sempre nel distretto di Chaoyang, è stato messo sotto accusa dai genitori degli alunni di avere sottoposto i piccoli ad abusi e maltrattamenti simili a quelli descritti alla Ryb Education (soprattutto segni di aghi sul corpo dei bambini e punizioni corporali eccessive). Le prime indagini compiute sulle telecamere di sicurezza della Ryb Education Institution non hanno rilevato abusi sessuali compiuti ai danni dei più piccoli, secondo quanto riferisce nella tarda serata di oggi la China Central Television, ma l'ondata di sdegno per la vicenda, manifestatasi soprattutto sui social media, era ormai cominciata. I due scandali, l'incendio che ha provocato 19 morti e le accuse di abusi, "hanno toccato la linea di fondo della sicurezza e della stabilità della capitale", ha dichiarato il segretario del partito di Pechino, e ristabilire entrambe deve diventare "il compito politico più importante" dell'amministrazione della capitale.
28 NOVEMBRE 2017
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