AgiChina24 ha intervistato Sergio Romano a margine della presentazione del libro di Mario Filippo Pini "Italia e Cina, 60 anni tra passato a futuro", edito dai tipi dell'Asino d'Oro. Sergio Romano è stato Ambasciatore in Russia, è professore di Storia delle Relazioni Internazionali ed editorialista del Corriere della Sera.
Milano, 14 dic. - Alta tensione nel Pacifico meridionale. All'annuncio di Obama di un aumento della presenza degli Usa nel Pacifico, segue gelida la risposta di Pechino: "Preparatevi a combattere", è l'appello lanciato da Hu Jintao alla marina cinese. Pechino si sente accerchiata da Washington. Il rinnovato dinamismo americano - la creazione della TPP nel corso del summit Apec e l'aumento delle truppe americane dislocate in Australia – vengono da più parti interpretati come una forma di contenimento che gli Usa intendono attuare nei confronti della Cina. Il 2012 sarà un anno di elezioni per entrambi i paesi. L'appello di Hu potrebbe servire a tranquillizzare l'opinione pubblica, ma il Dragone punta anche a una maggiore capacità persuasiva nei confronti degli Stati Uniti. Qual è l'opinione di Sergio Romano?
Sulle posizioni di entrambi i Paesi pesano componenti tanto di politica estera che di politica interna. Gli Stati Uniti hanno sempre considerato la Cina come un potenziale nemico. Alcuni ambienti americani sono particolarmente insistenti nel considerare la locomotiva asiatica un pericolo, mentre altri hanno tentato di proporre politiche concilianti. Se da un lato gli Stati Uniti hanno sempre mantenuto nel Pacifico basi militari attrezzate per un possibile conflitto, e hanno continuato a fornire armi a Taiwan, dall'altro lato il governo americano è condizionato da considerazioni di politica interna. Barack Obama sa di essere stato criticato per la sua politica nei confronti dell'Iran; le elezioni si avvicinano, e un'attenzione particolare al Pacifico assume quindi una connotazione pre-elettorale. In Cina, per certi aspetti, valgono considerazioni analoghe. Il nazionalismo è l'argomento a cui i governi cinesi fanno regolarmente ricorso per garantire a sé stessi una maggiore coesione e solidarietà nazionale. La corrente nazionalista in Cina è sempre presente, ed esplode in particolari circostanze; non solo quando è provocata dall'esterno, ma anche quando torna a vantaggio di chi dirige il Paese. Non dimentichiamo che le manifestazioni antiamericane sono cicliche - come quelle antigiapponesi, del resto -. Si ricordi, per esempio, l'ondata di sentimenti xenofobi che travolse la Cina quando un missile statunitense colpì l'ambasciata cinese a Belgrado nel 1999. Si tratta, insomma, di fattori ricorrenti soprattutto nelle fasi in cui la Cina ha maggiormente bisogno di coesione e unità nazionale. E quello che sta vivendo oggi è uno di quei momenti.
La Cina punta a diventare una potenza militare . Gli analisti parlano di "armamento dissuasivo", escludendo quindi un'ottica aggressiva. Se la Cina avesse avuto un margine di negoziazione maggiore, la primavera araba avrebbe avuto un corso diverso?
Escluderei una relazione diretta tra le capacità diplomatiche della Cina e le vicende arabe. Ritengo piuttosto che le vicende arabe abbiano colto Pechino di sorpresa. La Cina continua a essere uno stato intrinsecamente contraddittorio: da un lato si considera un paese in via di sviluppo e quindi evita di accreditarsi come potenza mondiale, dall'altro lato però non può dimenticare le proprie dimensioni; è ossessionata dalla propria insicurezza, e fa esattamente quello che farebbe qualsiasi altro Paese al suo posto. Non dimentichiamo che se all'interno del Congresso statunitense c'è una corrente che considera la Cina un potenziale nemico e concorrente, vi è certamente in Cina una frangia che vede negli Stati Uniti una potenza imperiale da cui difendersi. Finché gli Stati Uniti continueranno ad armarsi come fanno adesso, la Cina farà altrettanto. Forse Pechino avrebbe dovuto tener conto del fatto che, anche se la politica statunitense nel Pacifico non è cambiata in modo significativo rispetto all'amministrazione precedente, Obama ha affermato la volontà di diminuire di circa 500 miliardi di dollari il bilancio militare nel corso dei prossimi anni. Ma questo evidentemente non ha impressionato più di tanto Pechino.
Dagli Stati Uniti spostiamoci in Europa. In un suo articolo apparso sul Corriere della Sera nel 2009, commentando la dichiarazione del presidente cinese "Pechino ha attribuito grande importanza ai rapporti con l'Ue", scriveva "queste parole contengono una cortese bugia". "Non è vero che vuole che l'Ue sia più utile e rilevante, ma è vero che la Cina non desidera un mondo americano, desidera un'Europa forte perché preferisce un mondo multipolare in cui ci siano forze capaci di contenere e concordare la debordante potenza americana". Oggi la crisi del debito che attanaglia l'eurozona e la recessione americana accelerano questo processo? Quali saranno le conseguenze del timore delle ripercussioni della crisi occidentale, che si stanno già facendo sentire in Cina?
Attenzione, la Cina ha sempre desiderato un'Europa forte per le ragioni che sono citate in quell'articolo: preferisce un mondo multipolare a un mondo dominato dagli Stati Uniti, che è poi la ragione che l'ha spinta a diversificare le riserve valutarie acquisendo un quantitativo importante di euro – la Cina non desidera che il dollaro sia l'unica valuta mondiale-. Da questo punto di vista, si scorge una straordinaria coerenza nella politica estera cinese. Ma Pechino non può non prendere atto di certi cambiamenti: l'Europa è lontana dalle aspettative cinesi. L'Ue non ha mai espresso una politica estera comune, e l'investimento di speranza che la Cina ha fatto sull'Eurozona è scollato dalla realtà. A ciò si aggiunge che oggi l'Europa sta attraversando una crisi economico-finanziaria che solo in parte è stata importata dagli USA. Una delle cause della crisi del debito sovrano va individuata nel fatto che i paesi membri dell'Unione Europea hanno vissuto per molti anni al di sopra dei loro mezzi, e questo incide tanto sull'immagine internazionale dell'Europa, quanto sulla sua capacità di esprimere quel minimo di politica estera che negli anni passati riusciva a garantire. Sono quindi convinto che i cinesi abbiamo capito che finché l'Europa non avrà risolto i suoi problemi, fare troppo affidamento su di essa non sarebbe realistico. Senza contare che la crisi europea finisce con l'avere delle ricadute negative sull'economia cinese; ma questo vale anche, se non di più, per i timori cinesi sulle ripercussioni della recessione americana. La prospettiva che l'economia americana possa a un certo punto non rappresentare più il mercato privilegiato delle esportazioni cinesi, con tutti i vantaggi che ne sono derivati per la Cina, non può che generare sconcerto. La Cina non è in grado di prevedere come si evolveranno i termini della questione. Ovviamente noi speriamo che la situazione cambi, ma per il momento non mi sembra che gli Stati Uniti abbiano ancora superato la loro crisi, e sull'Europa non è possibile investire grandi speranze.
E' invece ottimista sul futuro dei rapporti tra Italia e Cina, che di recente - riferendosi ai 60 anni di relazioni diplomatiche - ha definito "irrilevanti"?
I rapporti devono svilupparsi sul piano economico e l'Italia ha di fronte a sé occasioni straordinarie. Su un piano teorico. Un mercato come quello cinese offre opportunità rilevanti al nostro Paese, che – va ricordato - è la seconda economia manifatturiera dell'Ue. Ma queste occasioni sono state colte, a mio avviso, soltanto in parte. Credo che se l'Italia avesse dato prova di maggiore aggressività, in un'accezione positiva del termine, e di una maggiore 'impostazione sistemica' - offrendo maggiori reti di collaborazione alle imprese -, avrebbe saputo cogliere maggiori occasioni in Cina. Ma non è andata così, e siamo stati preceduti da altri. I grandi affari li hanno fatti la Germania, la Francia, persino la Gran Bretagna. Perché loro si e noi no? Forse non abbiamo saputo impostare una politica di sistema. Non dimentichiamo che, a differenza della Germania, della Francia e della stessa Gran Bretagna, l'Italia potrà sì contare sul secondo sistema manifatturiero d'Europa, ma non ha più le grandi imprese di un tempo. Su alcuni settori siamo ancora forti, ma abbiamo perduto posizioni nell'informatica, nella chimica, per non parlare dell'acciaio che se n'è andato via per conto suo, indipendentemente da noi. E, alla somma di tutte queste ragioni, l'Italia risulta molto meno in grado di esser presente sul mercato cinese rispetto ad altri paesi come la Germania.
La Cina come potenza egemonica. Gli interessi economici ed energetici forse spiegano meglio quello che la Cina fa, piuttosto che un presunto disegno di colonizzazione ideologica. Oltre alle rivendicazioni di sovranità territoriale nel Mar Cinese Meridionale, la Cina teme che gli Stati Uniti possano inserirsi come un cuneo nei rapporti tra Cina e Russia e indebolire il suo ruolo nell'ambito della Shanghai Cooperation Organization (SCO), un tassello fondamentale per la Cin, sia per gli snodi energetici, sia per la lotta ai separatisti uiguri?
Credo che la Cina abbia il diritto e il dovere di guardarsi dalla Russia. I rapporti con la Russia sono sempre stati potenzialmente conflittuali - e tali continueranno ad essere, sebbene in un clima politico fortunatamente diverso -. I due Paesi hanno anche ottime ragioni per andare d'accordo su alcuni fronti. All'epoca di Eltsin, e poi di Putin, la Russia è stata il maggiore fornitore di armamenti per la Cina. Ma questo non dipana gli attriti territoriali: il rischio che i confini discussi possano generare un conflitto tra i due Paesi è sempre presente, alla mente degli uni e degli altri. Ho l'impressione che la politica estera cinese - a parte qualche sprazzo di nazionalismo e rivendicazioni territoriali in Asia, per esempio nel Mar Cinese Meridionale per il controllo delle Spratly e delle Paracel -, sia meritoriamente conservatrice. Francamente non vedo aggressività nella politica estera del Dragone; ho sempre interpretato le ricorrenti fiammate di nazionalismo come motivate dalla necessità di creare coesione nazionale in una fase in cui la modernizzazione del Paese crea divisioni. Fratture che il nazionalismo è in grado di compensare. Non è bello vedere la Cina occasionalmente scossa da fremiti nazionalisti, ma possiamo comprenderne le ragioni.
di Alessandra Spalletta
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