Se la Cina sente odor di bolla
ADV
ADV
Se la Cina sente odor di bolla

Se la Cina sente odor di bolla

QUALE EXIT STRATEGY
di lettura
Inattesa, frettolosa, persino un po' incoerente. È una Cina diversa da quella finora immaginata, quella che ieri ha fatto salire i tassi ufficiali. Quell'intervento (+0,25 punti percentuali per prestiti e depositi a un anno) è poca cosa, rispetto ai ritmi di crescita dell'economia, all'andamento dell'inflazione; ma è un segnale dai risvolti anche inquietanti.
La Cina è in difficoltà. Agli occidentali piace immaginarla come un monolite - gestito per di più da un Partito comunista che dall'alto dispone di tutto - ma non è così, e non è mai stato così, nei lunghi millenni della storia del paese. Il problema, il rischio, di oggi si chiama bolla, e tutti sanno quanto possa essere pericolosa. Le quotazioni dei mercati finanziari, i prezzi delle case, i mercati del credito sono surriscaldati, e da tempo; le misure amministrative - l'ultima, rivolta alle sei maggiori banche, risale a pochi giorni fa - sono evidentemente risultate insufficienti. Con i prezzi al consumo che aumentano al ritmo del 3,5% annuo, anche se in rallentamento, i tassi reali erano diventati negativi e questo avrebbe ulteriormente alimentato l'inflazione finanziaria. Senza contare che negativi erano diventati anche i rendimenti reali sui depositi delle famiglie, che avrebbero così visto erodere redditi e risparmi.
Occorreva quindi qualcosa, possibilmente un intervento "chirurgico" e non troppo traumatico, che permettesse al partito-stato di frenare le aspettative inflazionistiche su tutti i mercati. Così la Banca del popolo ha alzato i tassi in modo selettivo: per i prestiti ha "stretto" insistendo sulle brevi durate, per ridurre una "speculazione" sempre più vivace; per i depositi invece sul lungo termine, per proteggere i risparmi.
La svolta è tutta qui. La crescita economica, che era già prevista in rallentamento nel 2011 e ora potrebbe ulteriormente frenare, è passata in secondo piano, insieme al timore di "gonfiare" le (poche) attese di un apprezzamento dello yuan, che sono subito ripartite: la manovra è già stata interpretata come un gesto distensivo verso gli Usa in vista del vertice del G-20 di questa settimana, e Pechino userà il rialzo anche a scopi diplomatici. Non si pensi però che i cinesi abbiano preso un'iniziativa comunque dirompente, ed esclusa solo pochi giorni fa, soltanto per ragioni di politica estera di breve respiro.
Quelle bolle così temute sono il frutto di una grande contraddizione nella gestione dei rapporti economici con il mondo esterno. Non si possono avere insieme cambio fisso, inflazione bassa e un enorme flusso di capitali in arrivo. A qualcosa, prima o poi, bisogna rinunciare. La Cina è riuscita finora a far quadrare il cerchio gonfiando le sue riserve valutarie, che sfiorano il livello mostruoso di 2.500 miliardi di dollari. Il gioco però non può andare avanti all'infinito senza costi crescenti.
Una svolta è quindi opportuna, anche per ragioni politiche, per mantenere la precaria stabilità sociale. È giunto il momento - e il recente balzo delle importazioni, salite ad agosto del 35%, ne dà un segnale - per aumentare la domanda interna, i consumi delle famiglie, i salari. I leader cinesi lo sanno bene, e per questo motivo la Banca del popolo sta preparando anche un opportuno rialzo dello yuan. Come spesso accade, la società trainata dall'economia corre però più veloce e le autorità, nel tentativo di rincorrerla, cominciano ad affannare. D'altra parte non si può pensare, come fanno invece i congressmen americani affamati di voti, che Pechino possa ora far salire bruscamente lo yuan. L'effetto sarebbe dirompente, e non solo per la Cina.
La situazione del Regno di mezzo deve far preoccupare tutti. Non si gioca con i mercati: in un sistema complesso l'effetto valanga può essere in agguato. A nessuno può sfuggire che se le bolle si stanno gonfiando dove il tessuto è istituzionalmente più debole, a causa delle strategie "di controllo" adottate da Pechino, a soffiarci dentro sono soprattutto i paesi avanzati: gli Usa, innanzitutto, ma anche Eurolandia, la Gran Bretagna, persino il Giappone che pure - attraverso il suo (consapevole) governatore Masaaki Shirakawa - ha lanciato l'allarme bolle. Tutto questo è già successo, tra il 2003 e il 2007, e si è visto come è finita. Un po' di prudenza, ora, è d'obbligo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

20/10/2010
ADV