Se il Dragone perde la faccia
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Se il Dragone perde la faccia

Se il Dragone perde la faccia

ANALISI
di lettura
di Luca Vinciguerra SHANGHAI. Dal nostro corrispondente
Se gli allibratori australiani avessero raccolto scommesse sull'operazione Chinalco-Rio Tinto, per la sconfitta di Pechino avrebbero pagato giusto un pugno di spiccioli. Da settimane, ormai, l'esito della partita che avrebbe dovuto portare in mani cinesi il 18% del colosso minerario anglo-australiano era già scritto.
E così è andata. Dopo un lungo, tormentato esame dell'operazione, Rio Tinto ha chiuso la porta in faccia ai potenziali acquirenti cinesi. E ha preferito gettarsi nelle braccia del suo concorrente di sempre, Bhp Billiton. Ironia della sorte, a facilitare il disimpegno del gruppo minerario australiano dagli accordi presi con Chinalco è stato il recente aumento del prezzo dei minerali ferrosi, di cui oggi la Cina è il principale consumatore mondiale.
Risultato: Chinalco ha perduto una preziosa opportunità per internazionalizzare il proprio business, aumentare la propria scala produttiva e accrescere il proprio prestigio tra i grandi produttori di metalli ferrosi. E la Cina, intesa come sistema e come governo, nel fallimento dell'operazione Rio Tinto ha perso un po' la faccia.
«Abbiamo fatto tutti gli sforzi possibili, e abbiamo adottato un approccio costruttivo per adattare la nostra offerta alle richieste degli azionisti - ha commentato ieri il presidente di Chinalco, Xiong Weiping -. È andata male, ma noi continuiamo a credere che la nostra proposta rappresentasse una straordinaria creazione di valore per i soci di Rio Tinto e la premessa di un'alleanza strategica di lungo termine tra le due società».
Le parole pronunciate a caldo del numero uno del gruppo cinese non sono di circostanza. Ma contengono una verità: sotto il profilo industriale e finanziario, l'operazione sarebbe stata vantaggiosa sia per Chinalco che per Rio Tinto.
Ancora una volta però le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del buon senso economico. Canberra ha detto di no a Pechino per la stessa ragione per cui, quattro anni fa, Unocal declinò un'offerta con i fiocchi da parte di Cnooc: nonostante la globalizzazione (e, nel caso di Rio Tinto, anche le impellenti necessità di cassa), i settori strategici non si vendono agli stranieri. Soprattutto, se questi ultimi parlano cinese.
Bieco protezionismo, insomma. D'altronde, in questa gara ad alzar barriere contro gli stranieri, i cinesi ci hanno messo molto del loro. Solo due mesi fa, Pechino aveva respinto un'offerta da 2,4 miliardi di dollari di Coca Cola su Huiyuan Juice, il maggior produttore cinese di succhi di frutta. Probabilmente, il violento fuoco di sbarramento alzato nelle ultime settimane da larga parte del mondo politico australiano sull'operazione Rio Tinto si spiega anche con il gran rifiuto espresso da Pechino a Coca Cola con motivazioni fumose e inconsistenti dettate dalla nuova legge antimonopolio.
Se i cinesi non sono disposti ad aprire ai capitali esteri neppure le porte del loro mercato dei soft drink, perché mai noi dovremmo lasciar loro campo libero in una delle nostre più grandi aziende minerarie?, si sono chiesti gli australiani valutando l'offerta di Chinalco. Il ragionamento non fa una grinza. Ma non porta lontano. Né i cinesi, né gli australiani.
ganawar@gmail.com
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06/06/2009
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