SBAGLIA CHI RITIENE PECHINO IN CONTROLLO DELLA SITUAZIONE

Torino, 19 dic. - La morte di Kim Jong-il, avvenuta nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 dicembre (ora italiana) secondo l'annuncio ufficiale dei media nordcoreani, è uno di quei momenti storici in cui un inevitabile senso di liberazione cozza contro la consapevolezza che l'improvviso vuoto di potere rappresenta una minaccia reale per la stabilità dell'intera Asia orientale.

 

Sebbene la notizia dell'infarto del "Caro leader" abbia colto il mondo di sorpresa, nelle capitali dei paesi più direttamente interessati – Corea del Sud, Cina, Giappone e Stati Uniti – si è provveduto da tempo a pianificare le reazioni più opportune. Da che la salute del secondo Kim, erede del fondatore della "dinastia" nordcoreana Kim Il-sung, aveva denunciato un netto peggioramento nel 2008, l'intera regione ha accelerato i preparativi per quella che si annuncia come una transizione ad alto rischio.

 

Esperti osservatori come Andrei Lankov e varie cancellerie occidentali considerano questo frangente il possibile innesco di un sempre più probabile processo di disgregazione della Repubblica Democratica Popolare di Corea, secondo la denominazione ufficiale adottata dal paese dopo la divisione della penisola coreana lungo il 38° parallelo.

 

Anche dall'interno della Cina filtrano dubbi sulla capacità dell'erede designato, Kim Jong-un, di traghettare il paese verso un nuovo equilibrio senza aver potuto godere di un congruo periodo di affiancamento al padre in preparazione per la successione. Il giovane Kim, non ancora trentenne, è stato nominato in posizioni di responsabilità nello scorso biennio, ma la sua presa sul potere appare tutt'altro che scontata, in particolare con riferimento all'apparato militare.

 

Già poco dopo il 1994, all'indomani della successione formale di Kim Jong-il al padre, la Corea del Nord si era trovata ad affrontare un decennio di gravissima crisi, riconducibile in primo luogo alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, da cui proveniva un sostegno determinante all'economia disfunzionale del paese, da tempo isolato dal resto mondo. Stime mai verificate parlano di oltre due milioni di morti nelle carestie degli anni '90, e resoconti affidabili raccolti da chi scrive tra i pochi che hanno potuto visitare il paese negli ultimi anni non lasciano intendere che la situazione sia migliorata, al contrario. Infrastrutture faraoniche giacciono inutilizzate, mentre la popolazione è stata ridotta alla sussistenza, nella migliore delle ipotesi.

 

La stabilità all'interno del paese è garantita dalle forze armate, anche in virtù della transizione dalla tradizionale dottrina politica nordcoreana – denominata juche ed evolutasi nel tempo da declinazione del "socialismo in un solo paese" verso un nazionalismo autarchico, non privo di accenti razzisti e sganciato da ogni riferimento al marxismo-leninismo – alla nuova politica songun, che postula la preminenza delle forze armate sul resto della società.

 

Vi sono ampi dubbi sulla capacità del potere "civile", nelle mani di Kim Jong-un in quanto vertice del Partito Coreano dei Lavoratori, di controllare i propri generali. Le forze armate sono portatrici di forti interessi nel sistema economico del paese, che è ormai del tutto piegato alle proprie esigenze. Così come accade per la popolazione civile – che può oggi conoscere il mondo esterno come mai prima grazie alla diffusione di DVD e telefoni cellulari, anche al prezzo di notevoli rischi per la sicurezza personale – anche gli alti gradi militari riconoscono il vantaggio che può venire dalla promozione di politiche di sviluppo controllato sul modello cinese.

 

Esponenti del mondo accademico coreano sottolineano da tempo, seppur sotto traccia, la necessità che l'Occidente formuli aperture in tal senso, anche per indurre Pyongyang a focalizzarsi su un'agenda di sviluppo, che freni possibili atti violenti. La repentina flessione dei mercati asiatici dopo l'annuncio della morte di Kim Jong-il lascia intendere che il rischio di instabilità e atti inconsulti sia considerato tangibile, con l'aggravante della presenza di armi nucleari a disposizione del regime nordcoreano.

 

Per Pechino lo scenario contiene forse un numero di incognite inferiore rispetto a quelle che gravano sulla pianificazione di Washington, Seoul e Tokyo, giacché la Cina possiede una relazione del tutto particolare con il vicino nordcoreano.

 

Sbaglierebbe, però, chi ritenesse la leadership cinese in controllo della situazione. Anzitutto, il comportamento ondivago di Pyongyang ha già dimostrato nel passato – anche recente – l'indisponibilità della Corea del Nord a farsi dettare una linea di condotta da potenze straniere: le improvvise fiammate di violenza sul confine con la Corea del Sud nel 2010 sono state una prova eloquente di come quello nordcoreano sia un regime nazionalista prima che un "fratello nel socialismo". In secondo luogo, la medesima dirigenza cinese si trova assai meno unita nell'appoggio a un paese che da utile stato-cuscinetto si è evoluto in un fastidioso incubatore di instabilità in un'area strategica per Pechino, oltre che in una ragione di imbarazzo per una Cina che farebbe volentieri a meno di essere percepita come l'unico protettore di uno stato-canaglia. Infine, quasi tutti i possibili sbocchi risolutivi di una eventuale crisi di successione in Corea del Nord sono nefasti per la RPC: un'unificazione pacifica (seppur enormemente complessa) con la Corea del Sud creerebbe le premesse per il sorgere di una nuova piccola-grande potenza in Asia orientale, peraltro alleata degli Stati Uniti e proiettata sul confine con la Cina stessa.

 

Un crollo generalizzato del regime nordcoreano genererebbe un'ondata migratoria drammatica verso le province settentrionali cinesi, già gravate da infiltrazioni (anche criminali) rilevanti e assai sgradite a Pechino, oltre che un vuoto di potere in cui forze più o meno deviate potrebbero prendere controllo di armamenti chimici, batteriologici e nucleari per fini ignoti. Un terzo scenario, quello di un conflitto aperto con la Corea del Sud sarebbe il più devastante, costringendo la Cina a scegliere tra una umiliante neutralità mentre l'ordine regionale viene riscritto – ancora una volta – da Washington, ovvero un intervento militare diretto con gravissimo pericolo di abrasione (o peggio) con le forze sudcoreane e statunitensi.

 

L'auspicio non può che essere per un'azione di monitoraggio e – se del caso – intervento il più possibile sincronizzato e coordinato tra i due grandi attori regionali, Cina e Stati Uniti. Quanto ciò sia politicamente possibile in un 2012 che vedrà elezioni presidenziali a Washington e Seoul, oltre che un delicato cambio di leadership in Cina, sarà una reale misura della statura dei leader interessati. Permettere al difficile clima economico globale, con il suo inevitabile corollario di pulsioni protezionistiche e nazionalistiche, di insinuarsi nel complesso calcolo strategico che deve presiedere alla sistemazione della penisola coreana sarebbe un errore imperdonabile, anche di fronte a un popolo nordcoreano che merita di uscire dall'incubo autoreferenziale in cui è costretto da troppi decenni.

 

di Giovanni Andornino

 

Giovanni Andornino è docente di Relazioni Internazionali dell'Asia Orientale alla facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli studi di Torino, presidente di Twai e direttore di Orizzonte Cina.

 

 

© Riproduzione riservata