SAUDADE: A VOLTE RITORNANO
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SAUDADE: A VOLTE RITORNANO

SAUDADE: A VOLTE RITORNANO

Pechino allo specchio – di Elisa Ferrero
SAUDADE: A VOLTE RITORNANO
di lettura
Pechino, 28 mag. - Farewell party, festa di "addio", è un termine che usiamo spesso a Pechino. È molto comune quando chiedi a un amico cosa farà venerdì sera che questo ti dica: "Ho un farewell party". E davanti a un farewell party, non si discute. È un fenomeno sociale dalla priorità assoluta qui, perché la gente, molto spesso, va e viene. Più spesso, va. È il lato difficile di Pechino: siamo un po' in balia dell'instabilità, del fatto che le persone a cui ci leghiamo possano andare via e tornare alle loro città sparse per il mondo, o noi stessi potremmo, possiamo, ce ne andiamo, un giorno. Quando? Quasi nessuno riesce mai a dirlo finché un evento più grande di noi non prende il sopravvento. Perché Pechino ci ha catturati tutti, anche se ogni tanto vorremmo esserne liberi… Noi, figli di genitori che hanno formato gli ultimi nuclei familiari stabili della tradizione italiana, siamo qui all'altro capo del mondo a scardinare tutto e a rivedere, anche nostro malgrado, il concetto di casa, di vita quotidiana, di stabilità, se posso azzardare anche di famiglia, per certi versi. E credo che questo ruolo non sia neanche del tutto intenzionale; noi siamo i canali di una serie di evoluzioni. Dei cambiamenti che ci sono stati nella nostra società negli scorsi decenni, non spetta a me fare il bilancio. La situazione dei miei coetanei è cambiata anche in Italia, nel paesello, nella cittadina, nella grande città. Ma noi, quelli dei farewell parties, siamo un fenomeno che sta ancora più in là: cresciuti dalla generazione che si è costruita il futuro con le proprie mani, siamo quella del futuro che sembra non cominciare mai. Cosa che poi secondo me è un'illusione, ma indubbiamente da una certa parte di società può essere vista in questi termini. E noi, lontani da casa ma che non siamo degli incoscienti totali, ci interroghiamo indubbiamente sui concetti di casa e di famiglia. Sappiamo bene cosa sono, e ne sentiamo chiara anche una certa mancanza.  Pechino, come tutte le realtà più o meno internazionali, è soggetta a questo fenomeno che chiamiamo giustamente "instabilità", per ovvie ragioni. Nessuno si sente di chiamare "casa" un posto dove c'è così tanto movimento di persone. Io lo chiamo "seconda casa" nei momenti di più grande slancio. Molti, però, (me compresa), ci vivono per anni; molti continuano a chiamarla "casa"; molti dicono che non ci vivrebbero tutta la loro vita, e intanto lo stanno già facendo. Dieci anni fa, la popolazione che mi stava intorno qui a Pechino era composta da studenti ventenni come ero io allora, perlopiù per soggiorni di qualche mese. Oggi vedo intorno a me gente che studia e sta qui tre mesi, gente che lavora e sta qui tre anni, gente che compra casa, mette su famiglia e di anni ce ne rimane trenta. Quanti di noi hanno fatto una scelta pianificata dall'inizio? Secondo me quasi nessuno, ma il concetto di chiamare questo posto "casa", diventa, timidamente, prudentemente, vagamente concepibile. "Tornare a casa" è un'espressione che, per il nostro tipo di vita, usiamo da anni. Tornavamo a casa, dieci anni fa, e intendevamo tornare al nostro Paese, e solo quello. Ma con il passare degli anni, e soprattutto quest'anno, ho visto farsi strada un fenomeno a me nuovo: amici tornati al loro Paese, che cominciano a pianificare di ri-tornare a Pechino. E questa è solo la prima parte del fenomeno. La seconda, è che tornano chiamando Pechino "casa", chiamando gli amici lasciati qui "famiglia". È vero. Gli amici di qui sono più che amici. È normale, siamo qui senza la nostra famiglia, è naturale che ci diamo in maniera più aperta, più completa, più intensa, più disinibita. Non abbiamo una realtà che ci protegge nel bene o che ci costringe nel male. Ci aiutiamo, ci sosteniamo. Ci divertiamo, ci scambiamo le cose. Con gli amici, siamo un nucleo. Ceniamo insieme, ridiamo insieme, chiacchieriamo la sera. Ci confidiamo le nostre incertezze, e ci intristiamo quando pensiamo al momento in cui ci divideremo. Ma una cosa è certa: anche dopo esserci lasciati Pechino alle spalle, non ci lasciamo più. Una persona una volta mi ha chiesto se ero sposata, perché ha notato che parlavo molto al plurale. "Abbiamo un amico in visita", sei sposata? No, mi riferivo ai miei amici. "Torno a casa!". "Baci a tutta la mia famiglia di Pechino", sono tutte frasi sentite o dette che hanno non più di qualche mese di vita, e sono per me un'esperienza nuova.  Questa settimana è intensa: ho tre partenze da smaltire, di cui una appena avvenuta e due prossime. Ma c'è anche una grande novità, i nuovi nati in casa Pechino: i ritorni! E finalmente sarà tempo anche di qualche "Welcome back party"! Ora che ci penso, una delle attrici protagoniste di questa serie di "A volte ritornano" sono io stessa: dopo aver vissuto a Pechino per tre anni, sono tornata in Italia dove ne ho passati altri due, e ora rieccomi a Pechino da uno. I ritorni questa settimana sono ben due. Due che mi rendono felice perché sono persone care. Altri due mi sono passati sotto gli occhi indifferenti, ma avranno reso felici altre persone, quindi hanno lo stesso valore. Il fenomeno dei ritorni cresce, e spero che continui a farlo. È qualcosa di nuovo, che fa sentire Pechino quasi quasi un po' meno traballante sotto i nostri piedi. Quasi quasi un po' più a misura di uomo, di quotidianità, di vita. Sempre con quel turbine di movimenti, di gente, di novità che ci piace tanto. La novità certo fa paura, e nei momenti di fragilità butta giù. Tutta questa libertà spaventa, in certi momenti è disancorante, ma rimane per noi la scintilla che ci accende. Quando a tutto questo si aggiungono i ritorni che ci confortano, questa realtà si fa, a sprazzi, più rassicurante. Famiglia di Pechino, famiglia tra mille virgolette, certo. Nessuno vuole togliere il valore che ha questa parola e questo concetto, o almeno non lo voglio fare io che non vedo l'ora di tornare a casa due volte l'anno per vedere la mia famiglia e i miei meravigliosi affetti di casa: il nucleo di persone da cui vengo, lo scheletro di quello che sono, le persone grazie alle quali sono dove sono. Ma allo stesso tempo sento l'importanza di avere, nella Pechino che mi ha adottata, un nucleo di persone che qualcuno osa affettuosamente chiamare "famiglia". Sono sicura che esistano già molti trattati di sociologia sui cambiamenti del concetto di famiglia negli ultimi decenni, e sui flussi migratori multidirezionali che stanno interessando il mondo. Confesso, tanto per cominciare, di non averne letto neanche uno. Ma da un po' di anni non si parla che di questo, sicuramente qualcuno con molta pazienza e capacità di comunicazione e sintesi lo avrà teorizzato: io, come molti altri, mi ci sono ritrovata in mezzo e non saprei neanche distinguere bene il perché. Ce ne sono tanti di perché, alcuni piccoli, altri grandi, alcuni motivati dall'istinto e altri dalle circostanze. È così un po' per tutti, e questo ci accomuna ancora di più. Ci fa essere, in un senso molto relativo, qualcosa di veramente vicino a una "famiglia". Tempo fa, in una puntata di una serie televisiva, ho sentito una frase che mi è rimasta in testa, e che sapevo che presto avrei in qualche modo riferito a qualcuno. Ora ho capito perché mi era rimasta in testa, era da dedicare alla mia "famiglia" di Pechino, in questo momento molto particolare di partenze e di ritorni.  "There's an old proverb that says you can't choose your family. You take what the fates hand you. And like them or not, love them or not, understand them or not, you cope. Then there's the school of thought that says the family you're born into is simply a starting point. They feed you, and clothe you, and take care of you, until you're ready to go out into the world and find your tribe". [C'è un vecchio detto che dice che non possiamo scegliere la nostra famiglia. Prendiamo quella che il destino ci dà. E, che ci piaccia o no, che la amiamo o no, che la capiamo o no, a quella ci adattiamo. Poi c'è la scuola di pensiero che dice che la famiglia in cui nasciamo non è che un punto di partenza. Ci dà da mangiare, ci dà da vestire e si prende cura di noi, fino a quando siamo pronti a partire, e trovare la nostra gente].  Io appartengo alla scuola di pensiero che dice che non c'è forza più grande del sentire le proprie radici quando si è lontani: la nostra famiglia di nascita, la fonte, l'unica e insostituibile; ma anche, che "la nostra gente" la si possa trovare in tutti gli angoli del mondo.  E, con la consapevolezza della nostra provenienza, se dall'altro capo del mondo possiamo avere una "famiglia" che ci fa compagnia, siamo molto, molto, molto fortunati. 
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